Skip to main content

Conferenza di Francesca Biagi-Chai a Pontremoli – Luglio 2018

Vi devo dire la cosa di principio. La gente ovviamente si chiede che cos’è la psicoanalisi. Io ho scritto un percorso “che cos’è la psicoanalisi”, proprio per voi. Ma questo percorso non è da meno a quello che faccio agli allievi più brillanti a Parigi. Cambia leggermente un certo vocabolario, poiché abbiamo un vocabolario che ci permette una piccola precisazione. Vorrei però che quando usciste da qua, ognuno di voi possa veramente, profondamente avere toccato con mano che cosa può essere la psicoanalisi e a che cosa serve: che cos’è la pazzia, che cos’è la detta normalità, che cos’è la nevrosi, come si vive nel mondo, com’è fatto l’uomo parlante, l’essere parlante, cioè l’unico animale su questa terra che espone di un linguaggio per creare qualcosa, perché il linguaggio animale esiste, ma non crea. Si potrebbe dire quasi che la conferenza è finita, ma noi diciamo che è finita più avanti.

Vi devo poi dire che cos’è un’analisi, una psicoanalisi non è una conversazione, è una terapia; minimo una terapia, massimo un’esperienza che porta ad essere se stessi psicoanalisti, per poter prendere in carico altre persone che vogliono diventare psicoanalisti nel loro cammino (ci vengono portati), oppure che soffrano di un mal di vivere che viene risolto tramite l’unico mezzo del quale dispone la psicoanalisi, vale a sapere: la parola. La parola non è come quella che trovate dappertutto e non è nemmeno la parola come quella che viene spesso paragonata nel suo uso alla psicoanalisi: la confessione; perché la confessione, certo, fa dire delle cose, poi si esce, si ricomincia, si ritorna e si è di nuovo a chiedere il perdono – non c’è una domanda che estragga qualcosa dalla mente del soggetto, qualcosa che viene estratto, come quando avete un dente che vi fa male. La psicoanalisi estrae le cose, quindi non c’è paragone. E perché non c’è paragone? Prima di tutto perché non c’è perdono e secondo – quello che vi voglio dire di più importante – perché non è una relazione reciproca, la psicoanalisi non è una reciprocità. L’analista nel suo modo di fare e di essere, avvicina l’imago, essendo lui stesso al punto di essere, in pratica, oggetto inumano che ascolta il peggio, il meglio, che tace, interviene in certi momenti piccoli, precisi per dare uno spunto. Avvicina l’inumano. Questo inumano fa sì che il soggetto qui si confronta con l’inumano, il suo inumano. Allora, tira fuori il suo inumano e tirando fuori il suo inumano lo vede, lo identifica, lo stritola in mano e magari si inoltra nella vita con un pò più di umanità. Quindi la psicoanalisi non ha nessuna pretesa a curare tutti e tutte ma, quel punto lì preciso è un punto della massima importanza. E perché l’analista può essere in quel posto di inumanità? Quella che abbiamo tutti noi. Perché lui stesso è stato sottoposto alla cura, per 18 anni – la mia ad esempio – e per 18 anni ha estratto tutto quello che ci può essere di complesso nella propria vita ed anche delle partenze, dei traumi. Quindi, passato tutto questo non è che dimentica – perché tutti dicono “eh! Con l’analisi si dimentica”. No! Non si dimentica niente, ma non si soffre allo stesso modo, non si soffre nel modo in cui la sofferenza viene ad impedire di vivere. Questo è un punto preciso della psicoanalisi. Rimane il ricordo, rimangono una sacco di cose ma, non si soffre allo stesso modo. Tutti dicono “Magari la psicoanalisi fa andare a male i matrimoni”. No! Anzi, a volte li fa andare, specialmente oggi, molto meglio, perché capendo la propria inumanità, si può capire anche quella del marito o della moglie e capendo l’inumanità dell’altro si riesce a stare un pò più insieme con i sintomi diversi l’uno dall’altro.

Questa sarebbe una piccola introduzione, poiché avrei ora la pretesa di portarvi a spasso lungo la storia della psicoanalisi che illumina, con questa luce che vi ho fatto intravedere ora, il sintomo. Non intendo raccontare la storia della psicoanlisi, che potete leggere ovunque. Vado avanti, cerco di stringere al proposito per arrivare in fondo perché l’ultima cosa alla quale vorrei arrivare è di farvi percepire che la psicoanalisi è eminentemente importante per la psichiatria, per la patologia mentale psichiatrica. E di questo ve ne farò una dimostrazione con Lacan, e non soltanto una dimostrazione, in quanto ho creato all’ospedale di Parigi – che ho diretto – una unità di psicoanalisi dentro all’ospedale e vedrete un caso o due, che vi racconterò per concludere, dove si può capire, accettare, nella pazzia, quella che si potrebbe chiamare una lingua straniera, giacché il primo razzismo è verso la persona, anche vicina a noi, in quanto non la si capisce, in quanto non ha i codici ai quali noi ci riferiamo di solito. Quindi la psicoanalisi tiene conto di tutto questo. Ed io non ho voluto andare avanti a parlare come vi parlo ora, ma ho voluto farvi una lezione su di questo – precisa – come la farei a qualsiasi studente in Francia. Vado avanti quindi.

Si potrebbe, con una semplice frase, dire che cos’è la psicoanalisi. E’ una terapia, come vi ho detto, che ha come strumento la parola. Permette a chi è sofferente, prigioniero di se stesso, di farlo giungere a essere qualcuno. Qualcuno non è necessariamente una persona famosa, conosciuta per tutti, riconosciuta per tutti. No. Può essere già qualcuno ai propri occhi, potete anche solo chiedervi “sono qualcuno io per me?” – non è una domanda così evidente, della quale la risposta è così evidente – quando prima non lo era, come fa a riuscire ad accettarsi? E per via di conseguenza, accettando se stesso, si fa accettare dagli altri, perché emerge non più come uno qualsiasi, ma come un qualcuno. Il che significa esistere e, per parlare moderno, sarebbe diventare visibili, non essere più invisibili, nel no man’s land dell’indecisione della vita sognata. Quel no man’s land che costituisce il fondo dell’impotenza nevrotica che schiaccia proprio il soggetto. Se nell’intimo, in effetti, si può fantasticare la propria vita, in un modo romantico o anche in un masochismo, in un godimento masochistico, come viene detto da tanta gente. Si può fantasticare così e morire di aver fantasticato, senza avere vissuto. C’è qualcuno per il quale questo modo di vivere non fa soffrire, c’è chi consente al sacrificio, c’è chi lo trascende questo sacrificio, lo sublima, come se potesse essere riconosciuto, visto da un altro misterioso, lassù, da qualche parte, un Altro ideale che lo guarda. Se nulla viene a disturbarlo, questo soggetto che sogna la sua vita, va tutto bene, la traiettoria non va disturbata. La psicoanalisi non centra. Ci sono delle figure nella vita, che si avvicinano a personaggi di romanzi, il loro godimento segue il loro ideale. E senza quella disgiunzione, quello scarto che fa umanità – che non si è come si vorrebbe essere – c’è chi è come vorrebbe essere, è perché no? Quell’ideale lì prenderà il posto del desiderio, oppure di una missione da svolgere nel mondo e da portare avanti. La psicoanalisi è molto rispettosa dei destini, delle diversità dei destini, delle singolarità dei destini. Non è rispettosa formalmente, ma è rispettosa essenzialmente, perché va nella stessa direzione. Lei si tiene soltanto lì per accogliere chi a un certo punto arriva ad un insopportabile e rimane il punto al quale ci si può riferire quando la vita è diventata insopportabile. Vediamo com’è nata la psicoanalisi. La psicoanalisi è nata – non vi farò certo una lezione di storia, la potete leggere dappertutto – negli anni 900, non è nata dunque in un momento qualsiasi. E’ nata nell’epoca della prima rivoluzione industriale. La prima rivoluzione industriale vuole che le donne comincino a liberarsi, a voler uscire dal comando paterno per cercare liberamente un marito, per amore o comunque sia per ragioni libere, non per interesse, non per ubbidienza. Questa liberazione non avviene solo a Vienna, avviene in tutta l’Europa. Problema: non ci si libera così facilmente dal passato, non è così facile. Anzi, sappiamo che l’uomo tende piuttosto a rimettere in mano agli altri quello che c’è da fare, il proprio destino “guidami tu!”, è sempre in apparenza più facile che dover decidere per se stessi. Se qualcuno lo fa, tanto meglio, e così tende a rimettere al domani. Fate un pò di introsprezione e trovate subito: rimettere a domani, procrastinare, come si dice, e poi così andare avanti senza sapere che va avanti. Quando il desiderio così viene schiacciato, non rimane al suo posto, si fa sentire, ecco i sintomi che escono e delle donne che si liberavano, quando hanno incontrato l’amore e il sesso libero, invece di essere liberate, sono state maggiormente schiacciate perché dovevano decidere loro. Era molto più difficile perché richiedeva la propria soggettività. Allora, lì hanno cominciato a nascere i sintomi isterici perché hanno incontrato un legame con l’uomo che non è né prostituzione, che quella l’hanno conosciuta ben regolata, né matrimonio ben definito dalla società, e quella della lebertà è diventata difficile da vivere e la donna si è trattenuta da sola più ferocemente che quando era governata dall’Altro, dal padre. Perché? Perché dovendo scegliere da sola, le scelte erano molteplici, non era univoco il principe azzurro, o era sognato o non era il principe azzurro. Quindi lì si stava un pò stretti perché non era univoco in quanto la vita e la scelta libera è equivoca “mi piace per questo, ma non mi piace per questo”… “ma sopporterò questo? Perché fa così? Era così prelibato e ora che siamo sposati non lo è più, è tutto diverso, ma cosa succede?”…Così si è manifestata, attraverso le donne, attraverso il corpo delle donne, quella liberazione che hanno incontrato nel desiderio, in quanto espresso, hanno incontrato un ostacolo imprevisto – la libertà – e si sono confrontate con la sessualità e lì comincia la difficoltà. Hanno così – attraverso crisi spastiche, paralisi dei membri, svenimenti… – scoperto l’inconscio. Il loro corpo manifestava delle sofferenze, che si traducevano nel corpo, che loro non capivano tanto bene, che nessuno capiva tanto bene, ma che tutti sapevano che da qualche parte dovevano pure arrivare. Non è che fossero nate dal nulla. E così hanno scoperto l’inconscio, ma non l’inconscio come opposto al conscio, che quando si dorme non si sa di essere lì, no no! L’insconscio con la I maiuscola, l’inconscio come malattia della rimembranza, malattia del ricordo, che stranamente non si fa strada attraverso la mente “così mi ricordo e ora sto meglio”, ma si fa strada attraverso il corpo, quindi questa rivelazione è venuta a mettere il dito su quella che si chiama: una verità rimossa. Vale a dire che l’uomo non è identico a se stesso, l’uomo è un soggetto diviso “sogno di essere quello che non sono”, oppure “credo di essere meno di zero, ma invece sono in gamba, ma non lo so e non ne godo”. Anche lì è un poblema. Quindi non è identico a se stesso e devo dire che lo scrittore, poeta Arthur Schnitzler, che era coetaneo di Freud, degli anni 900, aveva già detto prima di Freud questa banalità, ormai, affermando che l’anima è una terra straniera, il primo straniero siamo noi. Qui bisognerebbe cominciare a pensare un pò, quando parliamo di stranieri “che cosa mi disturba dello straniero se non la parte di me che non voglio, che rigetto?”. Freud ha saputo ascoltare quell’anima isterica, ha saputo fare contro la scienza neurologica dell’epoca, lui che inizialmente era un neurologo, ed era andato a seguire le lezioni di un altro neurologo famosissimo in Francia, il professor Charcot, che studiava appunto l’isteria. Charcot studiava l’isteria da scientifico, come quelle scienze che leggiamo oggi dappertutto, quasi si potrebbe dire da entomologista “Guarda qui: qui c’è rosso, qui c’è bianco, qui c’è nero, qui c’è grigio – l’abbiamo studiato”. No! Non sappiamo niente della persona, quello non è uno studio, la scienza non studia l’umano, vorrebbe impossessarsi magari, vorrebbe dominare il linguaggio umano, ma per ora non c’è ancora arrivata – meglio così, non ci arriverà mai e vedremo poi perché. Non ho niente contro la scienza perché: le medicine le do, penso che sia importante; sono assolutamente pro-vaccini. La scienza ha il suo posto e la psicoanalisi il suo. Dunque, Charcot voleva far entrare l’isteria dentro le categorie somatiche: la malattia neurocerebrale, la malattia dei neuroni… si trattava soprattutto di distinguerle dalle crisi di epilessia etc…. Permane, come vi dicevo, quella tentazione della scienza di farsi padrone del linguaggio umano, di andare oltre il limite che il linguaggio mette ad ogni persona che vive, come se, facendosi padrona del linguaggio umano, potesse afferrare la realtà. È come se non fosse lei stessa nata dentro il linguaggio, perché tutti gli esseri umani – tutti – siamo nati dentro il linguaggio. Il linguaggio non è un oggetto che apprendiamo per strada, è un oggetto che è lì prima di noi e se è prima di noi ne nasciamo dentro e lo usiamo per creare. Il linguaggio in un certo modo fa sorgere la realtà, la modifica; anche la scienza certo la modifica, ma la scienza è il linguaggio e il linguaggio la realtà la crea, perché se non c’è il linguaggio non c’è nessuna realtà, non c’è la possibilità di afferrarla, di sapere che si sta godendo, c’è il silenzio infinito del pianeta infinito. Quindi Charcot, a quel tempo – per farvi capire cos’era l’inconscio, perché parlava dell’inconscio anche lui – usava l’ipnosi. Mi fermo un attimo perché l’ipnosi torna di moda, non mi stupisce che ritorni di moda perché siamo all’epoca della scienza a tutto andare, a tutta velocità come il mercato oggi è a tutta velocità, è nell’immediatezza delle cose: bisogna far presto, far subito, trovare la via retta, dritta, univoca – proprio il contrario di cosa significa parlare. Certo, usava l’ipnosi, ipnotizzava le pazienti, faceva fare loro quello che voleva, poi le svegliava, quelle lì smettevano, poi le rifaceva ipnotizzare… era la prova che mentre erano ipnotizzate loro non potevano decidere, quindi per lui era la prova scientifica e lo associava alla suggestione “dico questo e fai questo” e così via. Ma cosa faceva? Lasciava il tempo che trovava, magari il sintomo spariva due giorni, la persona stava bene due o tre giorni, poi il terzo giorno si riprendeva daccapo. Quindi Freud non si è fermato lì, Freud ha mollato tutto questo, perché? Perché in ogni caso Freud si è accorto che non c’era nessun miglioramento durabile, la paziente non partiva con qualcosa di definitivamente cambiato in lei, qualcosa che la poteva far star bene per un pò. Quindi il medico doveva sempre essere presente, in ogni caso e quindi lui ha mollato tutto questo e ha riportato l’isteria al livello psichico, cioè al livello di una causalità, di una causa psichica. La psiche è causata dal fatto di parlare, ogni essere umano è malato, dal fatto stesso che è un essere parlante e che deve dire un sacco di cose, girarle intorno, trovare un sacco di piccoli dettagli per afferrare un pezzetto di verità. Come fare con quelle parole, come si è accorto Freud, che sono state gelate proprio nel corpo delle pazienti, quelle parole che hanno fatto dei nodi nella loro mente per un corpo, parole che le hanno colpite? Tutti lo diciamo “la parola colpisce”, però quando lo diciamo non ascoltiamo noi stessi. La psicoanalisi la diciamo tutti, ma non facciamo quel movimento di tirarsi appena appena da parte e dire “ma guarda cosa sto dicendo? Sto dicendo che le parole mi colpiscono come se qualcuno mi avesse dato un pugno, come se uno mi avvesse segnato qualcosa in me”. Quindi non sono io, per io, nato da solo e vivendo fuori dal mondo, sul mondo, diciamo, autistico.

Dunque, quando dico una cosa, cosa dico? Cosa voglio dire? Quella domanda è sempre quella che rimane così. Bisogna sapere, appunto, che quelle parole dette ai bambini – quando sono piccoli, anche non volendo – provocano un effetto, cioè un’implicazione del corpo del bambino. È quello l’effetto. L’effetto è che la parola, o gli fa un effetto di dolce solletico, o gli fa un effetto di terribile paura, o gli fa un sacco di altri effetti – ricordate gli effetti di parola che vi hanno fatto effetto e vedrete. Tenendo conto di quello che, la psicoanalisi lo insegna, non solo le parole in quanto sono dette nel significato, se uno dice “vai tamburo!”, può essere una parola d’amore se il bambino sa che quella parola lì, quella bocca lì, in quel modo di dire lì, con quella voce lì, è una parola d’amore. Quindi la psicoanalisi non dice “tu hai detto tamburo ai tuoi figli… aiutoooo, cosa succede a tuo figlio adesso, verrà traumatizzato per il resto della sua vita”. No! Ci sono tanti figli che dicono “ah, il babbo, lo so com’è lui”. “Lo so com’è lui” vuol dire che anche quando grida, non è quello che sembra, è un altro. Ecco cosa capiscono i bambini e questa è la cosa fondamentale, perché la scienza tende a colpevolizzare i genitori, facendo credere magari che sia la psicoanalisi ed io sono qui proprio per dirvi che per la psicoanalisi non è possibile, perché siamo tutti dentro a queste parole che diciamo e traduciamo, perché il problema non è tanto il fatto che noi le diciamo, quanto il fatto che chi le recepisce ci mette anche lui del suo. Quindi i genitori ci mettono del loro e anche i bambini ci mettono del loro. Quindi, il bambino, anche se è nato da due persone rimane sempre un singolo e non soltanto un singolo, ma i genitori lo incontrano quel singolo, non è che lo fanno a modo loro; provano ad educarlo, è giusto che sia educato, ma nello stesso tempo, il bambino reagisce a modo suo, è la sua individualità. Quindi la parola, come ve la sto aprendo ora, è un’alienazione, ovviamente, perché alienazione vuol dire far legame e la parola fa legame in quanto l’uno traduce quello che l’altro ha voluto dire, facendo così si crea un legame tra i due. Questo è un legame che porta a legare socialmente. La famiglia è il primo nucleo sociale, affettivo sicuramente ma sociale anche, dove nascono i legami sociali.

Vi dico di più. La psicoanalisi è un altro legame sociale a due. L’analista, nel suo silenzio, permette che il paziente: si arrabbi, faccia e dica un sacco di cose “ma lei qua, là…”; si accorga di qual è la modalità del suo legame sociale con gli altri e che l’analista non fa paura, perché l’analista, nel tacere, ovviamente viene fuori. Per esempio, io son stata già trattata da Mussolini, il mio bisnonno è stato ucciso da una spedizione punitiva, mica salto addosso al paziente. Sto parlando di pazienti all’ospedale e di deliri forti – non mi disturba perché “sono analizzata”. Questo per dire che in quel punto lì si corregge quella sofferenza che non è nata nel legame sociale in un modo pacifico o pacificato per il ragazzo.

Freud, come vi dicevo, è passato alla causa psichica e ora vi potrei fare un piccolo disegno, per farvi capire come avviene la causalità psichica:

In questo disegno mettiamo madre e padre con le parole che vi dicevo….

Che cosa ha importanza? Non è il padre e la madre, ma è il legame tra il padre e la madre, che è un punto interrogativo per il bambino. “Cos’ha trovato lei in lui?” Tutti i bambini si chiedono dove nascono i bambini, ma soprattutto chiedono “perché hai scelto lui? Come vi siete incontrati?”. Ecco, lì c’è il mistero dell’amore, non solo la chiesa parla di mistero, anche la psicoanalisi. Il mistero dell’amore. Poi c’è, quando sono appena più vecchi, il mistero del sesso, perché il vero trauma dell’umano son due: il sesso e la morte. Il sesso: non si può dire cosa si prova, si gode, si dice dopo quello che si è provato, si dice cosa si avrebbe voluto provare di più o di meno, ma non si può mai anticipare, mai! Perché è un’esperienza di godimento del corpo dell’Altro, godere del corpo dell’Altro non è una cosa tanto facile. Quantomeno capibile. E quindi siamo lì in un buco che nussuna scienza potrà mai richiudere, altrimenti purtroppo è finita la bellezza dell’umanità. E la morte? La morte la vediamo in faccia una volta sola e quindi non possiamo più dopo estrarre un sapere da lei. Quindi, questo [vedi disegno?] è quello che chiamiamo Edipo. Ve lo dico perché non si tratta di dire “il bimbo, il babbo e la mamma … è innamorata di suo padre …odia sua madre“… insomma, quello è l’Edipo per le riviste femminili, non è l’Edipo della psicoanalisi. Allora, intendiamoci bene – perché serve ai detrattori – è per quello che vi dico tutte queste cose, sto facendo una specie di militanza politica, perché devo rimetter le cose al posto, perché son state spostate e allora le rimetto al posto giusto.

Questo bambino, quando qui si pone tutte queste domande, accetta di non sapere, perché si pone delle domande. L’accettare di non sapere si chiama castrazione, che vuol dire “io non so tutto” e il fatto stesso di parlare è già una castrazione perché per parlare devo usare un sacco di parole perché precisamente non posso trasmettere senza parole tutto quello che provo e quando provo a parlare mi manca sempre un pezzo: potrei dire questo, quello, quello…aggiungere e non finire mai, invece arriviamo sempre sul dunque. Il dunque qual è? Il dunque è un’ipotesi, il fallo. Il fallo cos’è? Non è l’erezione, è il pene volendo, in quanto è lui che da il godimento visibile – perché il godimento della donna è superiore e quindi c’è una vera strage tra i sessi, per questo godimento – però, il fallo è ciò che risponde alla domanda “cosa lui vuole da lei?”, “cosa lei vuole da lui?” e alla domanda che si trova anche nelle canzoni popolari “dove correte? Dove correte?”, “verso che cosa correte?”. Uno dice “corro verso la bandiera”, ok! L’altro dice “corro verso il sapere”, ok! Ma son tutti simboli del fallo, tutti rappresentano la più valuta della vita, del godimento, della soddisfazione della vita. Se non ci fosse questo godimento, questa soddisfazione della vita, saremmo tutti cinici. Bisogna sapere che la nostra epoca è cinica e fortunatamente qui si sente meno, ma nelle città ci sono proprio persone che sono vuotate da ogni desiderio di un al di là, cioè desiderio di un ideale, di un andare verso qualcosa, non vanno più verso niente.

Questo è l’Edipo, il sacrificio che si fa in nome dell’amore per il padre, in nome dell’amore per l’Altro. La più valuta della vita, siamo attratti da ciò che è retto, da ciò che brilla. Come l’ha scoperto questo Freud? L’ha scoperto in un modo molto semplice. Un suo collega amico aveva una paziente che si chiamava Anna O., quella paziente Breuer, l’amico di Freud, la trattava con l’ipnosi. Stava un pò bene e un pò male, come vi ho già detto. Freud ha detto: proviamo a lasciarla parlare, falla sedere e proviamo a lasciarla parlare liberamente, vediamo cosa dice, cosa viene fuori. Lei ha cominciato a parlare, a ricordarsi delle cose e si è messa a ripassare la sua vita, a rimpiangere questo, a ritrovare delle emozioni..etc. Mentre parlava, qualcosa in lei si sviluppava. Quel qualcosa che si sviluppava in lei era l’amore, perché quando parlate a qualcuno lo amate. Se parlate di voi a qualcuno – gli parlate di voi e non perché gli passate il sale – quando parlate del vostro intimo a qualcuno lo amate, o lo odiate se nel vostro fondo ci son stati da bambino dei momenti di odio, perché amore e odio è la stessa cosa al rovescio. Comunque provate per lui un sentimento forte. Fattosta che Breuer aveva qualche piccolo problema con la moglie e se ne è andato a Venezia e Freud ha detto: aspetta che mi occupo io della tua paziente. Quando Breuer è partito, Anna O. ha sviluppato una gravidanza nevrotica, una gravidanza pura di parole, aveva la pancia, il vomito, le girava la testa, aveva i seni che erano gonfiati, aveva i dolori di parto…aveva tutti i sintomi della gravidanza che era il segno – a quel tempo non si sapeva cos’era – che era il segno dell’amore che aveva avuto per Breuer perché aveva parlato con lui. Freud aveva scoperto il transfert. Quindi aveva scoperto che l’analista si può fare il ricevitore delle parole, delle rimembranze di chi ha sofferto, senza aver paura dei sentimenti. E così ha scoperto il transfert e non ha avuto paura, ovviamente, dell’emotività di Anna O.

Arrivati a questo punto ci potremmo fermare qui e dire “ecco la psicoanalisi: basta parlare, basta ricordare, va bene tutto, le donne si sa, sono più sensibili, manifestano le cose, sanno mettere più in mostra i loro sintomi, ci insegnano la strada dell’inconscio, punto e basta”. Va bene per una Vienna degli anni 900, che non soffre di povertà come certi in questo momento tremendo della nostra epoca. Ma non è così semplice, se fosse così sarebbe stato un vero e proprio delirio. Succede che Freud inciampa in certi casi dove non riesce, le parole non portano niente, non cambiano i sintomi; sono cose che lasciano davanti un vero e proprio muro. Quello lo incontra con un suo paziente e lo incontra attraverso un libro. Il libro sono le memorie di un’alta autorità tedesca, che è il presidente Schreber. Schreber è un uomo che fino a 50 anni è stato un’autorità giudiziaria e poi stava per diventare presidente della corte d’appello di Dresda, che è una delle più alte funzioni della Germania. A quell’uomo lì, dove tutto era liscio e bello nel mondo, succede, mentre è a letto che dorme, che gli viene una frase in mente “sarebbe bello essere una donna mentre subisce l’accoppiamento”. Qui cosa succede? Due possibilità, non una, è lì che cambia tutta la psicoanalisi.

Prima possibilità:

ma guarda cosa mi viene in mente. Ma è possibile che io possa amare un uomo, ma scherziamo? La mente fa di quei scherzi e buonanotte, non se ne parla più. Forse nell’inconscio, no ma io li odio gli uomini, altro che amarli…forse…no non li amo, ma scherziamo davvero, come l’ho pensato?

E invece cosa succede qui? Succede che lui dice a quella frase

“non è la mia”, “chi me l’ha messa in testa? È qualcuno fuori di me perché non posso essere io”.

C’è, in quel momento lì, una rottura psichica. La rottura psichica è la psicosi, finché lui lavorava andava tutto bene. Quando poi è stato chiamato a diventare – vedete? – il fallo per tutta la Germania, il fallo non c’era e siccome non c’era, lui è piombato dentro quello che con Lacan chiamiamo “lo scatenamento”, la psicosi che era nascosta è uscita.

Cosa succede nella psicosi?

C’è Padre, madre …e qui? Un vuoto di senso. Il bambino non si chiede niente. Questo per lui è il legame tra i due, è sconosciuto all’orizzonte. Quindi lui prosegue la sua vita così, identificato al padre come un grande fratello, alla madre come una grande sorella, ma non nel rapporto del legame tra padre e madre, cioè il rapporto erotico. Fattosta che se lui svolge una vita così liscia, non ci sono problemi, ma se gli viene chiesto di rispondere in prima fila, del fallo, della brillanza dell’umanità che è erotizzata per forza, l’erotismo non c’è e accade: il delirio, le allucinazioni, il corpo che parte a pezzetti, i muscoli che si strappano, le orecchie che si aprono, la bocca che parla da sola. Lì entriamo nelle zone dove ora vi porto, difficilissime da capirem per l’unica ragione che non possiamo immedesimarci. Vi chiedo quindi un piccolo sforzo, come Lacan lo ha chiesto ai suoi studenti, tanti anni fa, un piccolo sforzo perché è inconcepibile. Però se vi dico: le allucinazioni, Giovanna d’Arco; allora voi dite “sappiamo cos’è”. Giovanna d’Arco ha sentito le voci. Figuriamoci, le voci sappiamo cos’è, parlano nell’orecchia. Ah! È una cosa così evidente parlare nell’orecchio? Cosa vuol dire parlare nell’orecchio? Chi non l’ha mai vissuto non ne può assolutamente immaginare, mentre possiamo immaginare un marito arrabbiato contro la moglie, che invece non è arrabbiatura ma è amore…tutto quello lo possiamo capire. Ma, la voce, il corpo che parte a pezzi, la certezza di essere un cadavere lebbroso trascinando un altro cadavere lebbroso. Allora lì non si capisce più, entriamo in un altro campo. Vediamo la psicoanalisi cosa può fare, … va alla lavagna

Quindi, non possiamo, non riusciamo a condividere, ma non fa niente perché io per aver lavorato 40 anni in ospedale, poi alla fine vi do un piccolo esempio, posso anche cercare di farvelo incontrare. Questo per dirvi che la detta pazzia si può manifestare nell’infanzia, si può manifestare clamorosamente, si può manifestare con piccoli segni, percepiti solo dallo psicoanalista, se lo psicoanalista sa che questo è possibile. Se non si sa che questo è possibile, si spinge a volere che sia come gli altri e si fanno dei danni tremendi, perché dove il soggetto non può andare perché non ha gli strumenti simbolici per poter afferrare di cosa si tratta, non ci può andare e quindi più si spinge e peggio è, bisogna invece risucchiarlo e girare intorno a quel vuoto, rivestirlo quel vuoto come lui stesso lo aveva vestito prima che si scatenasse. Vi do qualche indicazione delle congiunture di scatenamento che riconoscerete certamente facilmente, perché sono quelle dove siamo “chiamati” a venire in proprio a sostenere qualcosa. Se il paziente lì, quella domanda non è mai avvenuta in lui, non la potrà sostenere e dunque, se continua la sua vita va bene, ma se viene chiamato non potrà e lì vengono tutte le allucinazioni. Le congiunture sono:

– un matrimonio, – nel fidanzamento tutto bene, poi nel matrimonio boom– perché? Perché è un momento simbolico;

– la maggiore età civile, perché prima sei figlio di una madre e un padre, la responsabilità è loro, quando invece sei chiamato in responsabilità, è come se mancasse la terra sotto ai piedi del paziente;

– la gravidanza per primo e la nascita dei bambini per secondo. Le madri infanticidi non sono cattive persone, sono per lo più psicotici che non sono stati diagnosticati perché la nostra epoca non ne vuol sapere di psicosi, ha paura “No. Tutto liscio, tutto bello”, tranne quando lo psicotico scatena.

Devo dire che il sistema attuale del mercato generalizzato non arriverà ai suoi fini. Sapete perché? Perché ci sono gli psicotici e loro non rientreranno mai nei piccoli buchi già preparati, quindi, passaggi all’atto in continuo, islamismo all’estremo… – c’è un testo che ho scritto su un ragazzo di cui mi han chiesto di fare una perizia in prigione, era uno psicotico, è chiarissimo, ma non è stato visto prima e quindi dopo ci si scatenano addosso, ovviamente. Certo, la psicoanalisi non pretende che la giustizia non sia fatta, la giustizia fa il suo mestiere, tutti fanno il loro mestiere. La psicoanalisi dice soltanto che se sappiamo certe cose possiamo leggermente anticiparle se possibile – e poi anche curarle, ma quello è un altro discorso, adesso parlo dei passaggi all’atto.

Queste persone hanno quindi una personalità che quando si scatena, è per noi propriamente incredibile, del tutto.

Quando Freud si è trovato davanti a questo muro, lui ha preso in considerazione questa chimica reale e ha scritto un articolo di teoria che si chiama “Perdita della realtà nelle nevrosi e nelle psicosi1“, quindi la perdità della realtà vale per noi tutti, come già vi dicevo perché non siamo uguali a noi stessi.

Vi faccio lo schema di Freud, facilissimo da fare. [alla lavagna]

Il bambino, in un primo tempo, rispetta la realtà che gli viene portata dai genitori, indicata, raccontata, parlata, quello che volete, facendo tacere un pezzo, un pò, delle sue pulsioni: lui andrebbe, non so, ad abbracciare la madre, magari andare a letto anche insieme, invece non ci va perché rispetta il NdP, accetta la realtà sociale. Questo è il primo tempo della nevrosi.

Quando cresce, se è stato troppo rispettoso e non riesce più neanche ad avvicinare la minima donna, diventa un problema. Allora, la pulsione si fa sentire, vorrebbe il suo, come si dice in Italia, quindi si manifesta attraverso sintomi, non lo lascia dormire, ha l’ansia, ha le fobie…. quindi la pulsione si ristabilisce, cioè si manifesta, non tutta, ma almeno un pò, viene fuori a farsi sentire.

La realtà è sempre quella, ma è modificata per il soggetto, perché il sintomo fa sì che lui non riesce a fare, quindi è una realtà impedita, schiacciata, si rinchiude in casa, non sta bene… rimodifica questa realtà in sintomo. Allora lui cosa fa? Viene a chiedere il perché all’analista “come mai non riesco mai…?”, oppure “quando le incontro son sempre uguali e dopo tre mesi mi mollano, e come mai che mi mollano? E perché sono sempre quelle?”…, Quindi vedete che qui è la nevrosi. Questa realtà del sintomo è persa, e volendo anche questa [sta indicando la lavagna] era persa perché i genitori, la realtà che portano, è la realtà della loro storia, non è una realtà che è scritta da qualcuno, come sono scritti i comandamenti sul monte Sinai, scritti nella pietra, non c’è nessuno, è veicolata dalla parola, quindi non è mai, ovviamente, precisa.

Nella psicosi succede così: nel primo tempo il soggetto prende la realtà come gliela presentano, la realtà presentata è una realtà formale “vai a scuola, fai il bravo bambino, fai così, fai cosà” e uno lo fa. La pulsione però non è rimossa, la castrazione non avviene, nel suo intimo permane qualcosa che forse si farà vivo un giorno. Quando poi viene lo scatenamento, come vi ho spiegato prima, quando viene fuori “allora tu cosa vuoi? Dove vai? Cosa fai?” e che lui non regge queste domande, cosa viene fuori? Viene fuori che la realtà rimane, ma non può rimanere come tale, perché la pulsione è sempre positiva anche lei e non è più il bravo bambino, perché quello che gli viene chiesto è qualcosa di più, è di farsi carico se stesso, di diventare un brav’uomo, non di ubbidire e basta. Capite la differenza tra il formale e il soggettivo. Queste son cose importantisime, perché quando vedete uno che si comporta formalmente – non vuol dire che tutti i matti vanno a letto o vogliono andare a letto con la madre, dimenticate tutte queste storie – il paziente psicotico può essere il paziente più preciso della terra, perché la sua precisione è formale. Quello che vi dico è l’essenziale. Quando il formalismo cade, allora viene fuori la catastrofe. Quindi, una realtà sorge, ma è una nuova realtà, è una neo-realtà, una novità nella realtà e questa novità nella realtà è un delirio e esce precisamente quando viene richiamato il soggetto in proprio, il soggetto non si modifica e la realtà invece si modifica e quindi subentra l’impossibilità del legame sociale e subentra la possibilità del ricovero, certe volte, e succede la possibilità dell’andar fuori proprio, quello che tutti chiamano così. La realtà del presidente Schreber, con tutti i fili che partono da tutte le parti, perché? Perché, nel primo la realtà è soggettivizzata, mi fa giocare con il legame sociale e quindi, questo è importante per il giorno d’oggi, la legge, tutti parlano della legge – avete già capito tutto – le due possibilità della legge: la legge quando è soggettivata e il bambino sa cos’è la legge e quindi può rispettarla; e la legge quando è formale, allora sa tenersi per bene finché glielo dicono, però se deve prenderselo in proprio, non ce la fa. Quindi la legge è la legge del linguaggio, non è la legge del codice civile o penale. Quella tutti la conoscono, ma il problema è conoscere la legge o farsene carico, son due cose diverse e qui, in questo caso il ragazzo è fuori dialettica, allora lì cominciamo a capire un pò meglio il bullismo. Invece di andare avanti a dire che quel bambino è cattivo, perché ci mettiamo noi a pensare che lui è cattivo e noi siamo bravi perché ci prendiamo come misura della normalità, bisognerebbe invece dire: ha 10 anni, arriva a certe cose così, vediamo, lì c’è qualcosa che non va. E la vittima, povera vittima, anche lì c’è qualcosa che non va, perché tutti non sono vittime. Se prendo quel bimbo lì, forse perché quel bimbo lì è rinchiuso in sé, che non riesce a dirgli no e mica è perché il bullo che gli va addosso che non riesce a dire di no. Non riesce a dire di no perché in se stesso non riesce mai a dir di no. Allora entriamo già in un altro discorso, entriamo nel discorso di tentare di avvicinare queste patologie, l’una o l’altra non importa. Questo vuoto che vi ho disegnato prima, Lacan lo chiama preclusione, dove c’era il fallo. E il fallo vuol dire: ti trasmetto la possibilità di essere un uomo perché tu l’hai accettato, perché tu hai aperto qualcosa di te per accettarlo, non perché io te lo trasmetto tutto io, invece se non è possibile è perché forse in te qualcosa non era possibile, così è un’intimità che potrebbe anche essere genetica, a me non disturba che lo sia, perché non cambia niente al rapporto dell’uomo con la parola. Lacan è arrivato in questo punto, lasciato lì così, interrogato da Freud, e ha preso tutto il discorso di Freud ed è andato direttamente sulle psicosi perché era psichiatra, neanche neurologo, e ha fatto una cosa incredibile per il giorno d’oggi. A parte tutto quello che vi ho detto qua, perché questa è la lettura di Lacan ovviamente, qua l’ho impostata, non è una storia della psicoanalisi così, disumanizzata. La prima paziente che ha avuto era una psicotica, era una donna che ha accoltellato un’attrice di teatro a Parigi, negli anni ’30, perché aveva la certezza che questa donna volesse uccidere suo figlio che era appena nato. Cos’è la certezza? Vi ricordate la linea qui? Quella linea dove uno va dritto senza domande. La certezza è il nome del sintomo nella psicosi, è il sintomo che non chiede niente a nessuno, perché il soggetto è nel suo puro delirio, perché la domanda prima, di che cosa manca all’altro per amare mio padre, perché si ami… tutto quello non c’è stato, quindi la certezza è fuori dialettica, quando si è sicuri si è sicuri. Uno psicotico si farebbe uccidere per quella certezza perché è come se ce l’avesse nel corpo, se gli togliete la certezza gli togliete addirittura la vita, l’elemento di vita. Questo vuoto Lacan lo ha chiamato preclusione, da differenziare dal rimosso, dove c’è qualcosa che è rimosso e accettiamo, riconosciamo una parte ignota di noi stessi, ma quando questa parte viene e si manifesta a noi sotto forma sintomatica non abbiamo nessun dubbio che sia una parte nostra, non che ce l’abbia messa qualche divinità, una parte remota da me, ma è sempre me, vediamo se voglio conoscerla o meno. Invece l’ignoto radicale per la psicosi è il vuoto che lascia tutte le porte aperte, tutte le possibilità, le peggiori come le migliori, perché nelle migliori ci può essere la possibilità di un grande scienziato, di un grande artista…l’importante è che sia grande, perché il fatto di essere grande è che lui stesso prende il posto del fallo, lui stesso è una persona – personalità – essendo una personalità, non chiede niente a nessuno e trova il suo posto nel mondo. Ecco cosa la psicoanalisi già può fare anche con gli psicotici.

Lacan ha trattato questa donna, ha prolungato Freud, ha integrato la psicosi che Freud aspettava che qualcuno venisse a integrarla vicino all’isteria. Ha fatto un capovolgimento che permette di non abbandonare nessuno e quindi è venuto fuori questo elemento essenziale che era già in Freud, ma che Freud non aveva estratto perché aveva fatto il suo cammino, e che è il seguente:

Lacan ha detto così “la parola fa l’essere parlante”, tutto quello che vi ho detto all’inizio, lo riprendiamo daccapo. Quando nasce il bambino? Nasce come un piccolo organismo, nel momento in cui questo piccolo organismo percepisce la parola si fa il suo corpo, il corpo che con le sue parole, con le sue emozioni, con tutto quello che volete..e quindi facendosi così succede che la preclusione, quel buco del quale vi ho parlato, tra parola e corpo, vale per tutti, il fallo non è più la maggioranza. E lo sappiamo oggi, con tutto quello che succede al mondo, dovuto agli psicotici. Sarebbe bello prendere uno per uno il peggio, il meglio, l’assassino…

Vi ho fatto un piccolo disegno e poi vi racconto due storielle e abbiam finito.

Questa preclusione generalizzata che vale per tutta l’umanità, verrebbe così:

qui abbiamo le parole e la lingua in cui si nasce, qui mettiamo il padre, qui mettiamo la madre che veicola questa lingua. Loro ovviamente si incontrano. E qui cosa c’è? C’è il buco per tutti, perché appena nato c’è quella sospensione prima che le parole vengono a toccarvi.

Chi fa legame tra padre e madre viene a dare qui un significato, il significato del fallo, il desiderio di uno per l’altro, reciprocamente, che struttura il proprio desiderio del bambino, se riconosce che l’altro desidera, può desiderare anche lui e quindi si struttura.

Qui abbiamo la legge introiettata, per usare un termine che non è lacaniano ma che vale lo stesso, la legge come soggettivata, la legge come accettazione e non come formalità e abbiamo quindi “sarò anch’io un uomo un giorno” …”anch’io diventerò” e “in nome tuo farò”, in nome tuo e “chi te lo fa fare?” si dice, e “chi te lo fa fare” è appunto il fallo e il fatto che ti chiedi come mai quest’uomo ha amato questa donna reciprocamente, cos’è l’amore… vedete tutta l’umanità che conoscete, ma ce n’è un’altra e che non va dimenticata perché ha le sue lettere di nobiltà, si dice in italiano? Forse no, in francese si dice lettre de noblesse, vuol dire che ha la sua nobiltà e poi non soltanto la sua nobiltà, fa anche parte del mondo, abbiamo a che fare con gente così, abbiamo a che fare con bambini così ed è meglio almeno averne appena una piccola idea prima, soprattutto per le maestre, guai alle maestre.

Qui cosa succede? Succede che a questo bambino la lingua lo percuote ma lui non si preoccupa di padre e madre, solo dal punto di vista dei grandi fratelli, dei superiori, di quelli che l’aiutano, ma non di quelli che hanno desiderato il sesso uno per l’altro, hanno desiderato essere, vivere, farlo e tutto questo. Lui è come se si facesse “da solo”, esistono bimbi così, vanno rispettati e soprattutto riescono anche ad intravedere questa possibilità, questa differenza essenziale tra loro e gli altri e gli permette, questa differenza, o di andare verso il peggio, o di andare verso il meglio se c’è qualcuno che è capace di ricevere questa differenza. E qui abbiamo l’artista, i passaggi all’atto, tutto quello che volete…abbiamo di tutto perché abbiamo di ognuno.

Concludiamo, perché mi aspettate in questo punto, son sicura.

Se il soggetto psicotico non chiede mai niente, se fa come vi ho detto, tutto da solo, come mai viene dall’analista? La domanda ve la siete sicuramente posti perché viene subito di per sé. Viene per diverse ragioni. Lo incontro in ospedale psichiatrico, viene perché è scatenato, ha fatto qualcosa che lo ha portato fuori dal legame sociale e ha fatto sì che è stato ricoverato, fuori dal legame sociale, fuori da se stesso, fuori dal proprio corpo, fuori di testa… fuori.

Viene perché è mandato da qualcuno “Vai. Ma non vedi che dici delle cose strane”, “strana quella bambina lì ha detto due o tre cose strane, sarà meglio forse sentire cosa significa, vai, portatela in analisi…”.

Viene perché non è stupido, “ma guarda, gli amici sono lì, sembra che si divertano tra di loro, io non capisco bene, cosa fanno, mi ridono dietro, ma perché non lo so? Lei può mica trovare questo perché.”

Lo fa perché viene a rivendicare “io voglio essere come tutti”, “mi dicono che non sono come tutti e io voglio esserlo, allora lei mi faccia diventare come tutti”. Già vedete qui che chi non è analizzato dice “beh, diventare come tutti, ce ne hai delle pretese te, cosa significa…”. risposta dell’analista “certo, vediamo un pò, che differenza ci vedi lì?” e poi quello che lo faceva soffrire lo avvolgiamo dentro tutto quello che lui può fare di bello, dico bello apposta ma questo sarà un’altra conferenza. E poi viene anche perché sa che la psiconalisi esiste, che tratta dell’umano e che vuole, per curiosità, sentire di che si tratterà. Il problema non è come il paziente arriva, ma che cosa si fa della sua parola, cosa si fa di quei punti di estraneità della parola, che ovviamente quando si sa come esistano, cosa sono, dove portano, con quali conseguenze ci si può lavorare insieme.

Il delirio della normalità è il nostro delirio, è quello di volere che la normalità esista come misura unica per tutti. È un delirio anche quello.

Prima di concludere vi leggo un pezzetto, per farvi toccare con mano, di una storia che uno scrittore aveva raccontato a Lacan, un pezzetto di una cosa vissuta da me e un altro pezzetto di una cosa vissuta da me con i pazienti in ospedale e poi ci fermiamo.

Il pezzetto di Lacan è questo, riportato dallo scrittore francese Raymond Queneau a Lacan. È uno studente che passa un esame – quella superficialità di cui vi ho parlato, quella formalità, noi non la tocchiamo tante volte perché è quello che forse il paziente ha di più prezioso, perché è con quella superficialità che lui può avvolgere, quel buco che altrimenti lo risucchierebbe, quindi il delirio nella normalità è volere che lui dica la verità “il reale è la verità”, ma non c’è la verità assoluta, la verità è la verità di quella struttura che lui ha incontrato, quindi non importa che lui racconti storie, che lui faccia questo o l’altro, – io sono psicoanalista e ovviamente non lo chiedo a tutti voi, voi sappiate che questo esiste, che già è importante – a volte prendere in giro qualcuno è l’unica possibilità per un paziente di dire qualcosa di se stesso e guai a toccare.

La storia è la seguente: c’è un esaminatore.

“Mi parli – dice l’esaminatore – della battaglia di Marengo”.

Il candidato si ferma un’istante con aria pensosa: “La battaglia di Marengo?”. “Quanti morti, è orribile, quanti feriti”. “È spaventoso!”. “Ma – dice l’esaminatore – “Non potrebbe dirmi qualcosa di più particolare su questa battaglia?”. Il candidato riflette un istante e poi risponde: “Un cavallo ritto sulle zampe posteriori che nitrisce”. L’esaminatore sorpreso vuol saperne di più e gli chiede: “Mi dica ora, non vorrebbe parlarmi della battaglia di Fontenoy?”. Il candidato risponde: “La battaglia di Fontenoy?”. “Quanti morti, dappertutto, quanti feriti, tanti, è un vero orrore!”. L’esaminatore incuriosito chiede: “Ma scusi, potrebbe darmi qualche indicazione più particolare sulla battaglia di Fontenoy?” “Eh, dice il candidato, un cavallo ritto sulle zampe posteriori che nitrisce”. L’esaminatore con abile mossa domanda al candidato di parlargli della battaglia di Trafalgar: “Quanti morti, – dice lui – un vero carnaio, quanti feriti, a centinaia!”. “Ma insomma, non potrebbe dirmi qualcosa di più particolare su questa battaglia?”. “Un cavallo…”: “Mi scusi, ma devo farle osservare che quella battaglia di Trafalgar è una battaglia navale!”. “Oh, – dice il candidato – indietro cavallina!”.

Perché non può prender su di sé la risposta, gira e gira e gira.

Un mio paziente arriva,

“mi può dire qualcosa su sua madre…”, “mia madre? Eh! Certamente che posso dirle qualcosa di mia madre. Mia madre è pshhhh, fiuhhh! Eh! Chiamala poco mia madre, eh sì, signor madre è mica cosa da poco.”, l’analista “eh va bè, lasci stare … mica qualcosa di suo padre?”, “mio padre? Eh! Oh, oh. Mio padre non scherza mica.”, l’analista “ho capito, va bè, scusi è”, era il primo giorno “scusi, ma lei ha fratelli?” e lui “se ho fratelli? Eh! Lo sa cosa sono i fratelli? Contano nella vita i fratelli? Non son mica da poco i fratelli.” e l’analista “va bè, ci vedremo domani, arrivederci”.

E dopo non ne voglio più sapere dei fratelli. Si vede che lui non azzecca sul dunque, non viene al sodo.

Un altro piccolo aneddoto di ospedale, drammatico. È un ragazzo di livello superiore, un ricercatore di matematica di altissimo livello, perché in Francia c’è la Scuola Normale Superiore (L’École normale supérieur) e ha dato l’esame di quella scuola superiore ed è arrivato, credo, al massimo del voto allo scritto, però poi ha dovuto presentarsi all’orale e davanti alla domanda dell’orale, con l’esaminatore un pò duro, non poteva più né parlare né niente, quindi è andato via e non ha potuto sostenerlo e l’hanno trovato mentre si stava impiccando. L’hanno ricoverato all’ospedale ed era da tre giorni senza parlare, hanno provato in tanti a farlo parlare ma era ammutolito. Gli infermieri sempre mi vengono a chiamare pensando che a me tutte le cose più difficili mi piacciono e allora arrivo lì e mi dicono “è da tre giorni lì, non parla né niente“. Mi siedo lì con gli altri infermieri in giro e dico

“allora, scusi, ma lei potrebbe dirmi qualcosa su di lei perché logicamente se lei non mi dice niente io non posso capire”, allora lui si ferma “ma lei ha detto logicamente?”, è un matematico, è sulla linea pura e dura della matematica, cioè infinita. “eh! – gli ho detto – logicamente, per forza, non ho altri mezzi per capire”, io certo avevo letto il dossier. Allora mi dice “è una finta” e gli ho detto “guardi, se lei pensa che è una finta, chiudiamo subito il dialogo, vada in camera e ci vediamo un’altra volta, non si preoccupi”. E lui “finta suprema” e intanto parlava, “ma finta suprema”, io ero pronta, però era vero che era una finta suprema perché ero pronta a interrompere lì e allora gli ho detto – e tutti gli altri a notare che sta parlando, eravamo nel cuore della matematica, la logica – “prego, vada in camera, chiami, la vengono a prendere, la portano in camera”, “no, no – dice – parlo volentieri con lei”.

E da lì è rimasto in ospedale, poi bisogna vedere cos’è l’ospedale, lo vedrete quando avrò scritto il libro… però per 5 mesi, dopo 5 mesi ha rispreso lo studio, gli infermieri lo hanno accompagnato quando ha dato l’orale. sono rimasti dietro alla porta, sapeva che erano lì e si è sentito sostenuto e vi dirò, sostenuto dal di fuori, perché non aveva dentro gli strumenti sufficienti simbolici per sostenersi da solo.

Chiudiamo qui.

1Freud S. (1924). La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi, in Opere, vol. X. Boringhieri, Torino, 1980, pp. 39-43