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Sabato Lacan – Seminario a cura di Adele Succetti presso Officina Coviello – via Tadino 20 Milano – 27 ottobre 2018

COMMENTO A “TELEVISION”, Cap. I

Il primo capitolo di Televisione, molto breve, è una presentazione del suo intervento e di Lacan stesso al grande pubblico, cioè al pubblico del piccolo schermo. Lacan comincia il suo intervento dicendo: “Dico sempre la verità: non tutta, perché dirla tutta non ci si riesce.” (J. Lacan, Autres écrits, Seuil Paris, 2001, p. 509) Sembra una boutade alla Lacan ma, di fatto, in questo modo Lacan interpella il pubblico televisivo, che dal famoso psicoanalista in televisione si aspetta la verità, la verità a cui giunge la psicoanalisi e, forse anche, la verità su di lui, all’epoca considerato un maitre-à-penser e al tempo stesso un personaggio sicuramente controcorrente! La televisione, d’altro canto, già negli anni ’70 era uno strumento che si era sostituito – entrando addirittura nelle case delle persone – ai canonici luoghi da cui una Verità, con la V maiuscola, si dice: la chiesa, l’università, il palco… e, nonostante la mancanza del corpo reale di colui che, da diversi pulpiti, incarna il luogo da cui parte una verità, produce effetti a partire da una immagine, che attira lo sguardo, e da una voce, che si fa sentire. Oggi sappiamo bene, è sotto gli occhi di tutti, che da quel luogo-oggetto televisivo non esce solo la verità, tutt’altro… ma possiamo immaginare che, negli anni ’70, l’effetto sul grande pubblico, incuriosito dal personaggio, fosse piuttosto dirompente.

Ad ogni modo, Lacan si presta al gioco ed entra a gamba tesa, parlando d’emblée della verità e facendo un atto di parola che, con Austin, potremmo definire performativo: la verità, infatti, non è solo la verità dei fatti (che non si dice) ma, molto più spesso, dipende da un dire che si enuncia “dico la verità”, quasi come in un tribunale, in cui si chiede di dire “tutta la verità, nient’altro che la verità”… Ma cos’è la verità in psicoanalisi? Esiste? E perché Lacan dice che la verità è “non-tutta”?

Per la filosofia sappiamo che ci sono due diverse prospettive, riguardo alla verità, una ontologica, l’altra connessa al discorso umano. Nella prospettiva ontologica, propria della filosofia antica, la verità è considerata una proprietà intrinseca dell’essere; nell’altra, la ricerca di un criterio di verità è parte integrante del problema gnoseologico, ovvero di quale tipo di evidenza (sensibile, intellettiva, induttiva, deduttiva) possa essere la garanzia di un’autentica conoscenza. In questo caso, infatti, la questione della verità riguarda anzitutto cosa significa essere vero, indipendentemente dai modi di conseguire la verità. Da questo punto di vista la definizione più antica la si può trovare in Platone, per il quale vero è il discorso «che dice gli enti come sono», falso «quello che dice come non sono» (Cratilo 385 b). In seguito poi, nel discorso filosofico, la verità diventerà sempre più una relazione di corrispondenza isomorfica tra linguaggio e realtà, enunciati e fatti.

Per la psicoanalisi, sin dalla sua origine, l’ipotesi dell’inconscio permette di sostenere l’esistenza di una verità nascosta dietro o sotto formazioni dell’inconscio che sono, di fatto. delle deformazioni di copertura (ricordi, sogni, ecc..). Come, però, ha indicato già Freud, l’inconscio può mentire – può produrre, ad esempio, un sogno destinato ad ingannare il suo destinatario – quindi che ne è della verità in psicoanalisi? Se l’inconscio mente, che ne è della verità? Per spiegare questa difficoltà, Freud sostiene anzitutto che il sogno non è l’inconscio (il sogno è un messaggio) e che, soprattutto, esso mente in relazione al suo destinatario, vale a dire al suo Altro. La questione della verità, in altri termini, include l’Altro, dice qualcosa della relazione del soggetto con il significante: quando dico all’Altro che mento, gli sto dicendo anzitutto che lo sto ingannando ed è questa la verità, che si colloca – come indica Lacan nel suo Seminario XI – a livello dell’enunciazione e non dell’enunciato.

L’esperienza della psicoanalisi, che permette alla verità soggettiva di dirsi, di fatto, come spiega bene J.-A. Miller, fa emergere anche la sua volatilità, la sua instabilità, il suo carattere per così dire “liquido”: in analisi, infatti, dice Miller, “la verità è docile agli effetti del significante, votata a una metonimia senza tregua, sottomessa a retroazioni semantiche che cambiano continuamente il suo valore. In poche parole, la verità si rivela essere solo un sembiante” (cfr. J.-A. Miller, L’Orientation lacanienne, L’expérience du réel dans la cure psychanalytique, cours du 2 juin 1999, inédit). L’esperienza del dire in analisi, in altri termini, relativizza quella che è all’inizio è la propria verità, la fa deconsistere, fa emergere il suo carattere di “sembiante”, cioè di finzione che, in genere, dà senso… Il termine “semblant”, che in italiano è tradotto come “parvenza”, in francese in genere si usa nell’espressione “faire semblant”, cioè “fare finta” e, nel termine composto a cui si ispira Lacan secondo Miller, ovvero “faux-semblant”, che significa finzione, trucco. Lacan, a un certo punto del suo insegnamento,  tralascia il “faux” dell’espressione pleonastica e tiene solo “semblant”. La verità è una finzione perché, pur essendo importante, talvolta vitale, è fondamentalmente una copertura che ha, come dice ancora Lacan “una struttura di finzione”. In questo senso Lacan ha inventato anche il termine di “varità”, ovvero di verità variabile, di verità che varia, mai assoluta, ma che dipende dalle diverse interpretazioni delle situazioni e quindi, ancora una volta, dalla relazione che il soggetto intrattiene con il suo Altro. Mentre nel suo primo insegnamento Lacan attribuisce un valore fondamentale all’aletheia – termine greco che significa “svelamento, rivelazione e verità” – considerata come lo scopo del percorso analitico, in seguito Lacan sostiene invece che il discorso psicoanalitico mette la verità al posto che gli spetta! Le dà, in altri termini, il valore, limitato e variabile, che le compete.

L’attributo “non-tutta” della verità, presente nell’affermazione di Lacan, sottolinea, invece, un altro lato della verità che emerge nell’analisi, e da cui l’analisi stessa parte: essa include, infatti, una parte ex-stima, particolare, ovvero il reale proprio di ogni individuo, quello che gli è più proprio ma che misconosce. La verità dell’analisi è non-tutta in quanto fuori da qualsiasi universale – fa strano sentire alcuni analisti parlare in termini assoluti de “i figli, i genitori”.. – , avvertita del suo carattere di sembiante, può fondarsi solo sul reale… Come dice, infatti, Lacan in “Televisione”: “Dirla tutta (la verità) è impossibile, materialmente: mancano le parole. Ed è proprio per questo impossibile che la verità tiene al reale”, “tient au réel”. (AE, p. 509) L’uso del verbo francese “tenir à”, in questa frase, è un po’ particolare perché sta tra il “tenir à”, essere attaccato a, e il “s’en tenir à”, attenersi. Potremmo tradurla dicendo che il lato reale della verità – non il sembiante o la varità – ma il suo reale dipende dal fatto che c’è dell’indicibile, che materialmente mancano le parole. Questa affermazione è rappresentata, a margine del testo, da Lacan con il matema S(/A), che sta ad indicare che l’Altro è mancante, che non esiste un significante che garantisca l’esistenza di un Altro-tutto, completo. Questo significa anche che il simbolico è bucato e, nello specifico di una qualsiasi affermazione, che c’è sempre uno scarto fra enunciato ed enunciazione.

Come dice in seguito, Lacan ha tentato di “rispondere alla presente commedia” (AE, p, 509) – quella della trasmissione televisiva – ma il risultato andava bene per essere cestinato (sappiamo che Lacan ha provato ad improvvisare il suo intervento, com’era previsto, ma la sua improvvisazione, di fatto, era incompatibile con la ripetizione propria della ripresa cinematografica). Lacan ha accettato per amicizia nei confronti di J.-A. Miller e per simpatia per il giovane Benoit Jacquot ma quale è stato il risultato secondo lui? “Fallito” (AE, p. 509) dice – a conferma di quanto detto sopra rispetto alla verità non-tutta, al fatto che tra enunciazione ed enunciato c’è uno iato – ma, proprio per questo, “riuscito”. (AE, p. 509) Come gli atti mancati sono gli unici atti riusciti – in quanto in essi si manifesta qualcosa della verità dell’inconscio – anche in questo caso il fallimento del suo tentativo di risposta dice qualcosa di vero rispetto a un errore, da parte sua, “o per dirla meglio: di un errement”. (AE, p. 509) Il termine “errement”, poco usato nel francese corrente, pur contendendo la stessa radice del termine errore, viene usato spesso al plurale e sta ad indicare i modi di procedere, i metodi oppure gli errori (esempio: retomber dans ses anciens errements, ricadere negli antichi errori). È interessante notare che, tra il 1973 e il 1974, Lacan tiene un corso, ancora inedito, intitolato “Les non-dupes errent”, “i non-creduloni errano”, che, in francese, suona anche come “les noms-du-père”, “i nomi-del-padre”. Nel seminario, il termine “errer” ritorna spesso e Lacan spiega l’origine di questo verbo. Dice che “errer” risulta dalla convergenza di error, errore, e di qualcosa che non c’entra nulla: viene dal verbo iterare, che non significa viaggiare ma bensì ripetere (da iterum). Nel verbo errer, quindi, c’è al contempo l’errore e la ripetizione.

Lacan, quindi, sostiene di aver fallito a causa di un “errement”, quello che “consiste nell’idea di parlare perché degli idioti lo comprendano”. (AE, p. 509) L’idea sbagliata, però, gli è stata “suggerita. Dall’amicizia”. (AE, p. 509) Per amicizia nei confronti di Miller, è incorso in un pericolo, ha dato credito… al pubblico, a Miller o semplicemente alla parola? Non lo sappiamo. Sicuramente, Lacan mostra due effetti solo apparentemente contradditori di questa sua credenza: da un lato il fallimento – perché la verità non può mai essere detta tutta – e dall’altro l’antico errore (riuscito, in quanto si ripete) di parlare perché qualcuno lo comprenda. Come dice infatti Lacan: “non c’è differenza tra la televisione e il pubblico davanti al quale parlo da molto tempo, quello che si chiama il mio seminario”. (AE, p. 509) Per afferrare meglio l’appellativo poco gentile di “idioti” vs “non-idioti”, Miller suggerisce che, per Lacan, prima di qualsiasi esperienza del soggetto, esiste il linguaggio e la sua struttura; questo condiziona il soggetto e tutte le sue possibili esperienze e, inoltre, produce il sapere inconscio “che non c’è rapporto sessuale”, vale a dire che c’è un buco nel sapere della sessualità (cfr. J.-A. Miller, Ce qui fait insigne, lezione del 29 aprile 1987). In questo l’idiota è solo una formulazione diversa dell’uomo comune, “per il quale è vero che non c’è rapporto sessuale. Non ci capirà nulla, sicuramente, ma già lo sa”. Per quanto riguarda i non-idioti, che sono anch’essi idioti rispetto al “non c’è rapporto sessuale” proprio del sapere inconscio, per loro si suppone però che, avendo a che fare con la pratica dell’analisi, possano posizionarsi in modo un po’ diverso rispetto a quello che Lacan dice. Miller, d’altro canto, “nella commedia”, si è fatto il portavoce del popolo, degli idioti, interrogando Lacan a partire dalle obiezioni che gli venivano mosse di solito. Lacan, però, gli risponde tenendo conto di chi aveva di fronte, ovvero non uno qualunque ma qualcuno che era comunque “ai bordi dell’esperienza analitica”.

In entrambi i casi, quindi, al di là della preparazione che non è l’unico limite – ce n’è uno strutturale come abbiamo visto – Lacan parla dal posto dello “sguardo”, (AE, p. 509) parla a partire dal posto dell’oggetto, che è anche quello che un supposto analista è tenuto ad occupare nell’esperienza analitica e pure nell’insegnamento. Sia in televisione che al suo seminario, infatti, egli non si rivolge a nessuno in particolare, non è obnubilato dallo sguardo del pubblico, ma, invece, “parla in nome del suo pubblico”. (AE, p. 510) Il pubblico – di idioti o di specialisti che sia – viene cioè ad occupare per lui il luogo del destinatario – credenza necessaria per non errare – e lui parla dal posto di oggetto nel discorso analitico: ciò che produce è la divisione del soggetto, lo stupore, il fraintendimento… in ogni caso l’interrogazione.

Non parlo, dice poi, “à la cantonade”, (AE, p. 510) ai quattro venti, parlo comunque “a quelli che se ne intendono, ai non-idioti, a degli analisti supposti”. (AE, p. 510) Lo dice con ironia oppure no? A me pare con un po’ di ironia…. contro “gli analisti supposti”. D’altro canto, aggiunge Lacan, “l’esperienza prova, anche se ci si limita all’assembramento”, (AE, p. 510) che quello che lui dice, ovvero il suo insegnamento orale, interessa molte più persone di quelli che lui suppone analisti. Perché, quindi, si chiede, dovrebbe parlare con un altro tono in televisione rispetto a quello che usa nel suo seminario? Ciò a cui fa riferimento qui Lacan è la questione di cosa significhi insegnare, in particolare insegnare qualcosa della psicoanalisi che, come indicato già all’inizio del suo intervento, non si occupa degli universali – insegnabili in ogni branca del sapere – ma del particolare, del godimento particolare di colui che soffre, uno per uno, e che, pur partendo da un’ambizione di scientificità (Freud in primis e Lacan con i suoi schemi e i suoi matemi poi), è anzitutto una praxis, cioè una pratica. Come accade già nel suo Seminario, frequentato da psicoanalisti, intellettuali e altre persone interessate o incuriosite, anche alla televisione Lacan “suppone anche degli analisti a sentirlo”, (AE, p. 510) cioè che stiano ad ascoltarlo.

In queste poche righe e in modo un po’ sibillino, Lacan fa riferimento, utilizzandoli, a termini che definiscono l’esperienza analitica stessa e, anche, l’insegnamento come lui lo intende. Da un lato infatti c’è l’analista che è in posizione d’oggetto, di sembiante d’oggetto (voce, sguardo) e che, nell’insegnamento, nella trasmissione (nei due sensi del termine) si manifesta come sguardo e, soprattutto come un “tono”, ci mette il corpo proprio, e parla dalla posizione di oggetto. Dall’altro, c’è l’analizzante o il telespettatore che gli “suppone” un sapere, un sapere sull’inconscio in quanto analista e che, però, poi può essere “colpito” dalle sue parole, dal suo tono, dal suo punto di enunciazione. L’effetto a cui punta l’analista, nell’analisi e nella trasmissione, però – è importante sottolinearlo – non è l’identificazione all’uno, a un significante che viene dall’Altro, e neppure l’assembramento o l’imitazione. Come indicato dai due matemi di pagina 510, l’effetto a cui tende l’analista è la divisione soggettiva, qualcosa di un risveglio che interroghi … e che apra sulla produzione di un sapere singolare, soggettivo, invece di tappare come può fare il sermone o la conferenza simil-filosofica che riempie di senso e di significanti identificatori. La supposizione di sapere è la traduzione lacaniana del concetto di transfert: come ha spiegato più volte Miller, amo quello a cui suppongo un sapere… che in un qualche modo mi concerne. E questo vale in tutti gli ambiti in cui entra in gioco un sapere. La questione, eminentemente etica, però, è che cosa si fa di questo transfert, se lo si utilizza per produrre identificazioni o altro….

Riguardo alla trasmissione della psicoanalisi, e quindi agli analisti che lo ascoltano al seminario o in televisione, Lacan è netto: “non attendo niente di più dagli analisti supposti che di essere quell’oggetto grazie al quale quello che insegno non è un’autoanalisi”. (AE, p. 510) L’insegnamento, la trasmissione della psicoanalisi, ribadisce Lacan, non è un ritorno su di sé, sull’io – insegnare non significa fare un’autoanalisi – ma, e in questo si avvicina all’esperienza analitica, un dire in cui l’enunciazione parte dall’oggetto piccolo a e si rivolge all’esterno. Già molti anni prima, Lacan aveva sostenuto che non esiste autoanalisi proprio per l’anteriorità della presenza dell’Altro. In questo caso, invece, ciò che è messo in valore è la presenza del corpo, del mistero del corpo dell’Altro che funge da reale, da sembiante d’oggetto – come la televisione – per chi lo ascolta.

Aggiunge poi che gli analisti “lo sono solo in quanto sono oggetto – oggetto dell’analizzante – e ad essi si rivolge: “non che parli loro, ma che parli di loro: non foss’altro che per turbarli”, (AE, p. 510) per disturbarli… per produrre un turbamento, necessario rispetto al “non volerne sapere” dell’inconscio, rispetto alle difese che ogni soggetto mette in campo contro il reale dell’inconscio. Forse, precisa ancora, il suo dire, il suo insegnamento “può avere degli effetti di suggestione” (AE, p. 510) sui supposti analisti che lo ascoltano. La suggestione – a lungo criticata da Lacan in quanto considerata un fenomeno immaginario prodotto dal significante stesso (rappresentato dal matema S1 S2) – riappare in questo testo tardivo in modo quasi sorprendente. Questa affermazione, però, si può comprendere in quanto – come dirà in seguito Lacan – ogni discorso ha un effetto di suggestione, un effetto ipnotico, produce un godimento e, al tempo stesso, un’identificazione. È l’abc della comunicazione pubblicitaria…

Lacan, però, nel suo insegnamento, cerca di andare contro, di contrastare questa china propria del discorso; egli sostiene, infatti, che “un discorso fa sempre addormentare, tranne quando non lo si comprende. Allora risveglia” (cfr. Le Séminaire, Livre XXIV, L’insu que sait de l’une bévue s’aile à mourre, cours du 19 avril 1977, inédit). Questo è l’effetto che Lacan vuole produrre parlando al suo Seminario e anche in televisione. Se il risveglio, però, è difficile, si produrranno più facilmente degli effetti suggestione. In alcuni casi specifici, però, suggerisce ancora Lacan parlando sempre degli psicoanalisti, la suggestione non produce nessun effetto; questo avviene quando l’analista non accetta la perdita che l’esperienza analitica determina. È il caso in cui, come dice Lacan, “l’analista apprende il suo difetto, la sua mancanza dall’altro” (AE, p. 510) (in questo caso il verbo tenir significa sapere ma anche attribuire). Si tratta, in altri termini, dell’analista che usa il sapere (sempre dell’altro) per tappare il buco, per non volerne sapere… precisamente della mancanza, a livello del desiderio, e del buco, a livello della struttura. Ed è colui che, in un certo qual modo, a livello inconscio, rimprovera al proprio analista di averlo condotto così avanti nella sua analisi da aver deciso di “porsi lui stesso come analista”. (AE, p. 510) Sembra una questione astrusa ma è più comune di quanto si pensi… tanto più che la posizione dell’analista è, come ha detto prima Lacan quella dell’oggetto per il suo analizzante.

Nel suo corso “Ce qui fait insigne”, Miller sottolinea – dopo che “Televisione” era stata proiettata a New York, che, per come si pone Lacan e per quello che dice, può essere considerata come una “lunghissima tirata di teatro. (…) è chiaro – aggiunge – che non è fatta perché si comprenda” (29 aprile 1987). Fa buco in televisione, così come l’inconscio buca il sapere e i discorsi comuni. Come indica Miller, in questo testo, Lacan non sviluppa niente, piuttosto “sorprende. Va di sorpresa in sorpresa. È evidente che cambia prospettiva ad ogni frase e talvolta anche in mezzo a una frase”.        

Per questo, citerò, senza spiegarla, mantenendo tutto il suo effetto di sorpresa, l’ultima frase del presente capitolo: “Fortunati i casi in cui passe fittizia per formazione incompiuta: fanno sperare…”  (AE, p. 510)