Skip to main content

UNA PRATICA ILLUMINATA….DALLA PSICOANALISI

UNA PRATICA ILLUMINATA….DALLA PSICOANALISI[1]
Une pratique éclairée… par la psychanalyse

Guy Poblome

 

Vorrei partire da questa domanda: quali sono le condizioni necessarie per accogliere dei bambini e degli adolescenti, autistici e psicotici, in un contesto istituzionale?

Il termine “illuminato” si riferisce alle Lettere che Jacques-Alain Miller indirizzò a “l’opinione illuminata” nel 2001[2]. Queste lettere furono scritte mentre in Francia Lacan era strapazzato dagli psicoanalisti dell’IPA, proprio quando diventava evidente che in tutta l’IPA, fuori dalla Francia, si cominciava a leggere Lacan, a studiarlo, a usare i suoi concetti. Cos’è un’opinione illuminata? In primo luogo, è l’opposto dell’opinione pubblica che è un movimento di folla, di massa, di cui Freud ci ha mostrato – e conosciamo bene questo fenomeno – che è instabile, oscillante e che può capovolgersi. E in secondo luogo, indirizzarsi all’opinione illuminata vuol dire fare appello a un giudizio. Si tratta di giudicare che cosa è diventato l’insegnamento di Lacan in tutto il mondo, e possiamo farlo solo se riusciamo a rimuovere i paraocchi che ci impediscono di guardare oltre il nostro naso.

 

Allora, perché evocare una pratica, non solo orientata, ma illuminata dalla psicoanalisi, a proposito della pratica in istituzione? Proverò a dare una risposta a questa domanda alla fine della mia presentazione. Per arrivarci, vorrei condividere con voi alcuni punti che ho tratto da questa pratica, a partire da un’esperienza molto singolare, quella del “Courtil”[3], in cui ho lavorato per 30 anni, e quella de “Antenne 110”[4], di cui sono l’attuale direttore terapeutico.

 

Il soggetto dell’inconscio

 

Mi sembra chiaro che quello che fa da pietra angolare di questa esperienza di psicoanalisi applicata è ciò che fonda la psicoanalisi stessa, cioè il soggetto dell’inconscio. Il soggetto dell’inconscio è questo essere propriamente umano, che è un essere di linguaggio, attraversato dal linguaggio. È un essere che incontra il linguaggio e ne rimane scioccato. Da quel momento nulla è più naturale: il rapporto con gli altri, con il mondo, il rapporto con il corpo, anche con i suoi effetti di godimento, è determinato da questo shock iniziale, da questo incontro del soggetto con il linguaggio. Insomma, questo incontro, questo shock iniziale con il linguaggio, costituisce un reale, il reale dell’essere umano. E ognuno, nella sua singolarità, risponderà a questo reale, risponderà di questo reale; la nevrosi e la psicosi, che prendono accenti schizofrenici, paranoici, melanconici o autistici, sono altrettante modalità di risposte particolari a questo reale che cade sul soggetto quando viene al mondo.

 

Prendere questo punto di partenza significa affermare che la psicosi o l’autismo non sono un handicap o un deficit che potrebbe essere localizzato nel cervello o nei geni e ai quali occorrerebbe porre rimedio con tecniche o protocolli più o meno sofisticati. Si tratta di una questione fondamentale, soprattutto per quanto riguarda l’autismo. Negli ultimi 20 anni, infatti, sono fiorite tutta una serie di ipotesi sulla causa dell’autismo, ognuna delle quali si basa su uno studio scientifico. È una cosa seria! Ma, in definitiva, nessuna di queste regge davvero. Il mese scorso ho appreso che uno studio ha dimostrato che il vaccino contro il morbillo non ha alcuna incidenza  sull’autismo, sebbene un precedente studio lo aveva presumibilmente dimostrato.

Quindi, prendere questo punto di partenza del soggetto dell’inconscio, non significa dire che la psicoanalisi detenga la verità scientifica dell’autismo. Lacan sognava indubbiamente di fare della psicoanalisi una scienza, ma è tornato indietro, per confermare ciò che Freud diceva dell’inconscio, ovvero che è un’ipotesi. In realtà, dobbiamo credere nell’inconscio perché esista. E bisogna andare da uno psicoanalista perché l’inconscio cominci ad esistere. E la cosa più sorprendente, è che questo ha degli effetti!

 

Partire da qui rispetto al soggetto dell’inconscio significa dare tutto il suo peso a ciò che Lacan dice della follia, cioè che si tratta di una “insondabile decisione dell’essere”[5]. C’è una scelta, una scelta forzata certo, ma una scelta soggettiva, la scelta di una posizione soggettiva nei confronti dell’Altro del linguaggio. Aggiungo che anche se c’è una disabilità, anche se il cervello o gli arti sono colpiti, ciò non toglie nulla al fatto che ci sia un soggetto. Il soggetto è il contrario dell’oggetto. Il soggetto è colui che è responsabile, nel senso che risponde di ciò che gli accade, del suo inconscio e persino del suo handicap. Altrimenti si riduce all’oggetto del suo handicap, si riduce al suo handicap, al suo deficit, al suo difetto genetico o neurologico. Si tratta di una questione etica fondamentale.

 

Una definizione in negativo

 

A partire da qui, possiamo approcciarci a cos’è questa pratica in modo, direi, negativo – come il negativo di una foto per coloro che forse ancora conoscono le macchine fotografiche prima dell’era dell’i-phone o smartphone. Questa posizione etica implica il rifiuto di ogni sapere prestabilito sul soggetto. Essere inchiodati da una conoscenza prestabilita significa ritrovarsi in posizione di oggetto di questo sapere. L’Altro sa qual è il problema, qual ne è la causa, come bisogna porvi rimedio, qual è il bene del soggetto. Come sapete, l’inferno è lastricato di buone intenzioni.

 

La cosa interessante è che questa domanda etica è del tutto articolata alla clinica, perché se si ha un po’ di esperienza con la psicosi, si sa che è meglio non sapere troppo sul conto del soggetto, perché subito si sente minacciato, o addirittura perseguitato da un altro che sa delle cose su di lui. Molto spesso, quando diciamo a un bambino qualcosa che lo riguarda, ci risponde: “Come fai a saperlo?”. Allora è importante ricordargli che lo abbiamo appreso da lui.

 

Di conseguenza, se ciò che orienta questa pratica non è un sapere prestabilito, non è nemmeno la norma, e ancor meno il comportamento. Un tempo la norma era definita dal buon senso, cioè dagli ideali. La psicoanalisi non si basa sugli ideali, perché sa  che essi sono una faccia del Super Io e della pulsione di morte, e che quindi non c’è bisogno di appoggiarsi agli ideali per orientare la pratica. Inoltre, oggi, gli ideali tendono piuttosto a scomparire e sono rimpiazzati dagli studi statistici. Ciò che fa la norma, è la curva di Gauss, e la potenza informatica permette di fare meta-analisi randomizzate che danno vertigini. Ovviamente, quello che è tenuto nascosto è il modo in cui vengono poste le domande in queste analisi statistiche, che sappiamo bene orientare le risposte. E questo è il motivo per cui, ad esempio, gli studi sulla causa dell’autismo si contraddicono a ogni piè sospinto.

 

Se la psicoanalisi si basa sulla singolarità, cioè su ciò che fa l’incomparabile di un essere parlante, sul fatto che non può essere paragonato a nessun altro, come punto di partenza etico assoluto, allora la norma non è idonea a orientare il lavoro. Né il comportamento, se considerato a partire da qualsivoglia normalità. Quando il comportamento è considerato normale o deviante, si aprono le porte a qualsiasi deriva di tipo correttivo del comportamento. Jacques-Alain Miller ha scritto un testo celebre su questo tema intitolato: “Salute mentale e ordine pubblico”[6].

 

Questo ha una conseguenza piuttosto radicale sulla pratica in istituzione, in ogni caso quella che si deduce da questa etica, è che ci sono pochissime regole. Le regole si basano sull’idea che sappiamo cosa è bene, buono, giusto, normale, ecc. e che vale per tutti. Dal momento in cui non è la norma a orientare il lavoro, le regole decadono.

E poi, anche qui la clinica è all’appuntamento anche se, allo stesso tempo si aderisce a un luogo comune che è quello per cui il proibito spinge alla sua trasgressione. Beh, nella psicosi, è quasi automatico: il proibito è l’incarnazione del Super-Io a cielo aperto e, come Lacan ha ben articolato, costituisce una spinta all’atto.

 

Continuo a definire questa pratica particolare in senso negativo. Se non si tratta di correggere il comportamento, se ne deduce che non si tratta nemmeno di “terapia”, di voler guarire. Si può capire come questo sia nel solco di quello che ho appena articolato. Guarire suppone sapere che cos’è la salute mentale, ma ciò che sappiamo è che non esiste.

 

Oltre a questo, Alexandre Stevens, che senza dubbio conoscete, e che ha fondato il Courtil, ha aggiunto: nelle nostre istituzioni, non si pratica una cura analitica e non si interpreta. Beh, questo si che è singolare. Nessun trattamento analitico in senso classico, per evitare che questa pratica in istituzione sia incentrata sugli specialisti che riceverebbero i bambini nel loro ufficio riducendo il lavoro dei cosiddetti “educatori” a una sala d’attesa. Perché in effetti è nella sala d’attesa che succede tutto, o in cucina o in bagno, ovunque. Quando succede qualcosa a un bambino, ad esempio un’angoscia davanti al buco della vasca, bisogna rispondere con urgenza. Non possiamo aspettare l’incontro con lo “psi”. È quindi nella sala d’attesa che l’atto del clinico è atteso e non nello studio dello specialista, o non solo.

 

Il “non si interpreta” risponde a sua volta a una necessità clinica: è che nella psicosi, specialmente nell’autismo, non si tratta di interpretare per far emergere un desiderio represso, perché la specificità dell’inconscio in questo caso è che è “a cielo aperto”; non c’è un desiderio nascosto di cui si dovrebbe far avverare la verità, ma c’è un godimento che in qualsiasi momento invade il corpo del bambino e lo fa tracimare, e a cui si tratta di porre dei limiti.

 

Ciò che orienta

 

Quindi, che cosa orienta? Si tratta di accompagnare Lacan nell’evoluzione del suo insegnamento per poter rispondere a questa domanda. Le sue prime elaborazioni mettono il simbolico in primo piano. L’inconscio è strutturato come un linguaggio e la verità del desiderio è colta nelle sue manifestazioni come i sogni, gli atti mancati o i lapsus. Lacan ha reinterpretato l’Edipo freudiano con la metafora del Nome-del-Padre. Il padre è al centro del dispositivo soggettivo, determina la nevrosi come la psicosi. Per quanto riguarda la psicosi, la lettura dei sintomi si basa sul concetto di preclusione del Nome-del-Padre. Il Padre, come agente dell’Edipo e della castrazione, non risponde quando viene chiamato a svolgere la sua funzione simbolica e quindi il rapporto con la realtà ne risulta perturbato in modo profondo e irrimediabile. Ma è gioco forza constatare che la preclusione si presenta essa stessa come un difetto, come un deficit rispetto a quello che sarebbe lo standard della nevrosi.

 

Questa concezione cambierà radicalmente nell’ultima parte dell’insegnamento di Lacan. In breve, il linguaggio non ha solo effetti di simbolizzazione per il soggetto, ma ha anche effetti di godimento per il parlessere. L’inconscio non è più solo situato come il luogo di una verità sul desiderio, ma anche come quello di una volontà di godimento. Questo godimento è la ripresa di ciò che Freud ha scoperto a partire dall’aldilà del principio del piacere, vale a dire la pulsione di morte. C’è qualcosa che è proprio all’essere umano, che è quindi legato al fatto che è un essere di linguaggio, che va contro il proprio bene e che tocca il suo corpo.

 

Di colpo, il sintomo assume un significato nuovo: non è più solo ciò che è disfunzionale rispetto ad una supposta norma, ma diventa ciò che nel soggetto risponde a questo godimento che cade su di lui. Per dirla in termini freudiani, il sintomo è ciò che permette di rispondere all’esigenza pulsionale in modo indiretto. Dunque, non c’è godimento “normale”, non c’è che godimento sintomatico. Il sintomo non è più considerato come un difetto da eliminare, ma come un’invenzione, una soluzione del soggetto per trattare il godimento. E qui non è più tanto il regno del padre che conta, che d’altronde non è più molto in forze oggi, ciò che conta è piuttosto la legge dell’invenzione singolare, del bricolage di ciascuno. Questo determina una clinica al di là del Padre, al di là dell’Edipo.

 

A partire da qui, posso riprendere i diversi punti sopra elencati per ricavarne il lato positivo.

Innanzitutto il sapere. Ciò che è essenziale è che la conoscenza non è dal lato di chi interviene, ma dal lato del soggetto, localizzato nel sintomo. In definitiva, la norma è quella del soggetto, caso per caso, come diciamo noi, e il comportamento è considerato come una risposta sintomatica del soggetto, vale a dire come trattamento del godimento che non si tratta interpretare ma di leggere.

 

In realtà, quando un bambino o un adolescente arriva in istituzione, la nostra posizione è piuttosto ingenua. Cerchiamo di capire qual è il reale con cui il soggetto si confronta e come cerca di risponderne con il suo sintomo. Questo è l’esercizio di lettura del sintomo. E per poter dare tutto il suo posto a questa lettura, le riunioni di équipe sono molto importanti, almeno quanto il lavoro sul campo. Questi incontri sono il luogo di elaborazione collettiva della clinica come punto di partenza: non sappiamo nulla, non conosciamo il soggetto, il sapere è fondamentalmente bucato. Facciamo ipotesi su quale sia la funzione di un sintomo per un soggetto, interroghiamo la dottrina analitica a partire dalla pratica tanto quanto la pratica è illuminata dalla dottrina.

 

Ovviamente, possiamo supporre che se un bambino ha bisogno di un’istituzione specializzata, è perché la sua risposta sintomatica, con i suoi effetti di godimento, non è così riconciliabile con il sociale, la famiglia o la scuola. Si tratta più di limitare il godimento, di spostarlo forse, più che di sopprimerlo. Gli costa caro, troppo caro, lo interdice dal legame sociale. Quindi, a partire dalla lettura che facciamo del sintomo, di ciò a cui risponde, non cerchiamo di interpretarlo dal versante del senso che potrebbe avere o puntando solo a farlo scomparire, ma accompagniamo il soggetto sulla via di una possibile riorganizzazione del suo rapporto con il godimento in modo che possa diventare più compatibile con il legame sociale.

 

Per venire alle regole, beh, succede che ci possano essere regole fatte su misura, che certamente è fattibile dire a un bambino, un adolescente o un giovane adulto: “Per te, solo per te, sarà così”. Esiste tuttavia una regola fondamentale, che non è la libera associazione, ma è il divieto della violenza. Questa è una regola eminente che vale per tutti, non ci sono cento regole. E’ l’eccezione. A volte, una sospensione temporanea viene decisa a seguito di un passaggio all’atto o di una messa in pericolo dell’altro o di sé. Mi colpì molto, ad esempio, quando lavoravo in un servizio in cui bisognava attraversare la strada per portare i bambini a scuola. Alcuni bambini si mettevano in pericolo, correndo per strada quando arrivavano le macchine. Ce n’era uno, ricordo, che si distendeva per strada davanti alle macchine che arrivavano. È stato allontanato per diversi giorni dal direttore e la cosa si è fermata. Vi dirò quello che penso sia stato efficace, non la sospensione in sé, ma questo: il direttore gli ha detto che come direttore, non gli era permesso di lasciare che i bambini si mettessero in pericolo. Con ciò diceva che era lui stesso, in quanto direttore, soggetto alla legge e che non era lui a disporre della legge come gli pareva, secondo il suo capriccio, che c’era al di sopra di lui un’istanza a cui egli stesso doveva rendere conto e a cui non poteva assolutamente derogare. Vedete, la legge alla quale siamo tutti soggetti non sono le regole che decido di applicare.

 

Non è diverso per chi lavora sul campo. Se uno di loro si trova ad affrontare un passaggio all’atto, non decide da solo, a suo nome, di una risposta da dare, di una  sanzione da prendere. Non incarna la legge. Piuttosto, si riferisce ad esempio alla riunione o ad un responsabile dicendo al ragazzo: “Davvero non è possibile, è troppo grave, sono tenuto a parlarne in riunione”. Oppure “Non posso fare altro che chiamare il direttore …”

 

Il trattamento delle domande, molteplici e varie, tutte più esigenti e urgenti delle altre, segue lo stesso percorso. Nessuno da solo incarna il potere di dire sì o no. La domanda viene rinviata a un’istanza terza (la riunione o un’altra istanza simbolica) che darà una risposta calcolata. Insomma, l’operatore può diventare un partner del soggetto a condizione che sia destituito, decompletato in modo permanente come Altro del soggetto che potrebbe incarnare.

 

Ciò si ripercuote anche sul modo di considerare e gestire il transfert. Lacan ha definito a un certo punto nel suo insegnamento, il transfert a partire dal soggetto supposto sapere. Diciamo che il sintomo fa enigma per il soggetto e che alla fine va da un analista perché gli suppone un sapere rispetto a ciò che gli accade. Beh, collocare il sapere sul versante del soggetto in ambito istituzionale – in realtà, non è specifico all’istituzione, ma piuttosto alla psicosi – fa tornare indietro, inverte il transfert. Dobbiamo imparare dal soggetto come inventa la sua soluzione singolare. È lui che è supposto sapere come fare con il godimento.

 

Il fatto che non ci sia cura in istituzione si articola anche con questa concezione del transfert. Perché identificare da un lato gli educatori che educherebbero i bambini e, dall’altro, gli psi che accoglierebbero la sofferenza del soggetto, comporta il rischio di focalizzare gli effetti del transfert in un unico luogo e questi effetti di transfert nella psicosi prendono molto rapidamente un accento persecutorio o erotomanico, cosa che può rendere molto velocemente il lavoro impossibile. Al Courtil, e all’Antenna anche, non ci sono né educatori, né psicologi, né psicoanalisti, ci sono “operatori”[7]. L’interesse del termine “operatori” è che suggerisce che si tratta di “operare tra”[8] il soggetto e il suo Altro per trattare gli effetti del godimento. Quindi, ovviamente, ci sono responsabili e direttori, perché bisogna prendere decisioni, ma di fronte all’urgenza di rispondere a ciò che invade un soggetto, ognuno è responsabile, e, in questo caso, non c’è uno specialista, non c’è una gerarchia, c’è prima di tutto l’impegno di ogni operatore.

 

Questo chiarisce la questione della “pratica a diversi”[9], che è un concetto che deve essere ben noto in Italia, dal momento che è stato Antonio Di Ciaccia, fondatore di Antenna 110, che lo ha inventato. La pratica a diversi non è una pratica collettiva, è una pratica in cui il sapere non è incarnato in uno solo, né nel collettivo, che è un altro nome dell’uno solo, ma è una pratica in cui ciascuno è responsabile del proprio atto, anche se si tratta di destituirsi o barrare se stessi facendo riferimento alla legge. Il transfert può quindi essere pluralizzato e la scelta è lasciata alla persona o alle persone a cui si rivolgerà. D’altra parte, questo risponde a una necessità molto clinica, che è quella che ho menzionato in precedenza rispetto alla sala d’attesa. Ciò che accade ad un soggetto e lo mette in difficoltà, il più delle volte, non può aspettare l’appuntamento fissato con uno psi per essere trattato. Succede durante il pasto o la toilette serale, o in qualsiasi momento: uno sguardo che perseguita, un corpo che si disfa, un’angoscia che pervade prima di coricarsi… Ognuno, sia esso psi o no, deve rispondere. Di conseguenza, i titoli degli operatori non sono ciò che conta. Psicologi, educatori, insegnanti, storici, filosofi, logopedisti, assistenti sociali, a volte operai, ognuno è ingaggiato dalla stessa responsabilità clinica.

 

Insomma, si può dire che si tratta di una pratica della vita quotidiana piuttosto che una pratica del trattamento. Ciò che è in gioco, ciò a cui si punta forse, è un certo stile di vita, vale a dire un modo di godimento che sia compatibile con il legame sociale.

 

Testo francese

 

Je voudrais d’abord vous remercier de votre invitation dans le cadre de ce week-end de formation sur la question de l’autisme et de la psychose chez l’enfant et l’adolescent.

Giuliana et Federico m’ont demandé de parler de l’accueil, de l’accompagnement et du traitement des enfants et des adolescents autistes et psychotiques en institution. Pas n’importe quelle institution, une institution orientée par la psychanalyse d’orientation lacanienne. Je voudrais le faire à partir de cette question : Quels sont les conditions nécessaires pour accueillir ces sujets si singuliers dans un contexte institutionnel ? J’ai décidé de partir de là et c’est ainsi que je me suis dit que je souhaiterais vous parler de ceci, qui fait le titre de mon travail : « Une pratique éclairée… par la psychanalyse ».

Ce terme « éclairée » a pour référence les Lettres qu’a adressées Jacques-Alain Miller à « l’opinion éclairée » en 2001. Ces lettres ont été écrites alors qu’en France Lacan était malmené par les psychanalystes de l’IPA, au moment même où il devenait évident qu’à travers toute l’IPA, ailleurs qu’en France, on se mettait à lire Lacan, à l’étudier, à utiliser ses concepts. Qu’est-ce qu’une opinion éclairée ? Premièrement, c’est le contraire de l’opinion publique qui est un mouvement de foule, de masse, dont Freud nous a bien montré – et nous connaissons bien ce phénomène – qu’elle est instable, oscillante, qu’elle peut se retourner. Et deuxièmement, l’adresse à l’opinion éclairée, c’est un appel fait à un jugement. Il s’agit de juger de ce qu’est devenu l’enseignement de Lacan de par le monde, et on ne peut le faire que si on est parvenu à s’ôter les œillères qui nous empêchent de voir plus loin que le bout de notre nez.

Alors, pourquoi évoquer une pratique, non seulement orientée, mais éclairée par la psychanalyse, à propos de cette pratique en institution ? J’essayerai de donner un bout de réponse à cette question au terme de mon exposé. Pour y arriver, je voudrais vous faire part de quelques points que j’ai sériés de ce qu’il en est de cette pratique, à partir d’une expérience tout à fait singulière, celle du Courtil bien sûr, puisque j’y ai travaillé pendant 30 ans, mais aussi, depuis quelques mois celle de l’Antenne 110, puisque j’ai la chance d’y avoir pris le relais de Bruno de Halleux depuis le mois de septembre dernier.

Le sujet de l’inconscient

Il me paraît clair que ce qui fait la pierre d’angle de cette expérience de psychanalyse appliquée est ce qui fonde la psychanalyse elle-même, à savoir le sujet de l’inconscient. Le sujet de l’inconscient, c’est cet être, proprement humain, qui est un être de langage, traversé par le langage. C’est un être qui rencontre le langage et ça fait un choc. A partir de ce moment-là, rien n’est plus naturel, le rapport aux autres, au monde, le rapport au corps aussi avec ses effets de jouissance, est déterminé par ce choc initial, cette rencontre du sujet avec le langage. En somme, cette rencontre, ce choc initial avec le langage constitue un réel, le réel de l’être humain. Et chacun, dans sa singularité, va répondre à ce réel, va répondre de ce réel, la névrose et la psychose, que celle-ci prenne des accents schizophréniques, paranoïaques, mélancoliques ou autistiques, sont autant de modes de réponses particulières à ce réel qui tombe sur le sujet quand il vient au monde.

Prendre ce point de départ, c’est affirmer que la psychose ou l’autisme n’est pas un handicap, ou un déficit qu’on pourrait localiser dans le cerveau ou les gênes, et auxquels il faudrait remédier par des techniques ou des protocoles plus ou moins sophistiqués – cela me permet d’ailleurs de vous donner rendez-vous au mois de juillet à Bruxelles à l’occasion du congrès de PIPOL 9 qui a pour titre : « L’inconscient et le cerveau, rien en commun », pour débattre de ces questions. Cette question est primordiale, spécialement en ce qui concerne l’autisme. En effet, depuis 20 ans, toute une série d’hypothèses fleurissent à propos de la cause de l’autisme, et chacune se base sur une étude scientifique. C’est du sérieux ! Mais en somme, aucune ne tient vraiment la route. Le mois dernier, j’ai entendu qu’une étude avait démontré que le vaccin contre la rougeole n’avait aucune incidence sur l’autisme, alors qu’une étude précédente l’avait soi-disant démontrée.

Alors, prendre ce point de départ du sujet de l’inconscient, ce n’est pas dire que la psychanalyse détient la vérité scientifique de l’autisme. Lacan a rêvé sans doute de faire de la psychanalyse une science, mais il  en est revenu, pour confirmer ce que Freud disait de l’inconscient, c’est que c’est une hypothèse. En fait, il faut croire à l’inconscient pour qu’il existe. Il faut aller voir un psychanalyste pour que l’inconscient se mette à exister. Et le plus remarquable, c’est que ça ait des effets !

Prendre ce point de départ du sujet de l’inconscient, c’est donner toute sa mesure à ce que Lacan dit de la folie, c’est qu’il s’agit d’une « insondable décision de l’être ». Il y a là un choix, un choix forcé certes, mais un choix subjectif, le choix d’une position subjective à l’égard de l’Autre du langage. J’ajoute que même s’il y a un handicap, même si le cerveau ou les membres sont touchés, cela n’enlève rien au fait qu’il y a là un sujet. Le sujet, c’est l’envers de l’objet. Le sujet est celui qui est responsable, au sens qu’il répond de ce qui lui arrive, de son inconscient, et même de son handicap. Sinon, il est réduit à l’objet de son handicap, il est réduit à son handicap, son déficit, son défaut génétique ou neurologique. C’est une question éthique fondamentale.

Une définition par la négative

A partir de là, nous pouvons approcher ce qu’est cette pratique de façon, je dirais, négative – comme le négatif d’une photo pour ceux qui connaissent peut-être encore les appareils photos d’avant l’ère du l’i-phone ou du smartphone. Cette position éthique implique le refus de tout savoir préétabli sur le sujet. Être épinglé par un savoir préétabli, c’est se trouver en position d’objet de ce savoir. L’Autre sait quel est le problème, quelle en est la cause, comment il faut y remédier, ce qui est le bien du sujet. Or, vous le savez, l’enfer est pavé de bonnes intentions.

Ce qui est intéressant, c’est que cette question éthique est tout à fait articulée à la clinique, car si vous avez un peu l’expérience de la psychose, vous savez qu’il vaut mieux ne pas trop savoir sur le compte du sujet car tout de suite, il se sent menacé, voire persécuté par un autre qui sait des choses sur lui. Très souvent, quand nous disons quelque chose qui le concerne à un enfant, il nous répond : « Comment tu sais ça, toi ? » Il est alors important de lui rappeler que nous le tenons de lui-même.

En conséquence, si ce qui oriente cette pratique n’est pas un savoir préétabli, ce n’est pas non plus la norme, encore moins le comportement. Il fut un temps où la norme était définie par le bon sens, c’est-à-dire par les idéaux. La psychanalyse ne s’appuie pas sur les idéaux, car elle sait qu’ils sont une face du surmoi et de la pulsion de mort, et que donc il n’y a pas à se saisir des idéaux pour orienter la pratique. En outre, aujourd’hui, les idéaux ont plutôt tendance à disparaître et sont remplacés par les études statistiques. Ce qui fait la norme, c’est la courbe de Gauss, et la puissance informatique permet de faire des méta-analyses randomisées qui donnent le vertige. Evidemment, ce qui est caché, c’est la façon dont les questions sont posées dans ces analyses statistiques, dont nous savons bien qu’elles orientent les réponses. Et c’est ce qui fait par exemple que les études sur la cause de l’autisme se contredisent à tout bout de champ.

Si la psychanalyse repose sur la singularité, c’est-à-dire sur ce qui fait l’incomparable d’un être parlant, sur le fait qu’il ne peut être comparé à aucun autre, en tant que point de départ éthique absolu, alors la norme ne vaut pas pour orienter le travail. Pas plus que le comportement si celui-ci est considéré à partir d’une quelconque normalité. Si tel comportement est considéré comme normal ou déviant, cela ouvre la porte à toutes les dérives de type redressement du comportement. Jacques-Alain Miller a écrit un texte célèbre à ce sujet intitulé : « Santé mentale et ordre public ».

Cela a une conséquence assez radicale sur la pratique en institution, en tout cas celle qui s’oriente de cette éthique, c’est qu’il n’y a que très peu de règles. Les règles s’appuient sur l’idée qu’on sait ce qui est bien, bon, juste, normal, etc., et qu’elles valent pour tous. A partir du moment où ce n’est pas la norme qui oriente le travail, les règles sont caduques. Et puis, ici aussi la clinique est au rendez-vous, même si cela rejoint en même temps un lieu commun qui est que l’interdit pousse à sa transgression. Eh bien, dans la psychose, c’est presque automatique : l’interdit, c’est l’incarnation du surmoi à ciel ouvert et comme Lacan l’a si bien articulé, il constitue un pousse-à-l’acte.

Je continue à définir par la négative cette pratique particulière. S’il ne s’agit pas d’y éduquer le comportement, il s’en déduit qu’il ne s’agit pas non plus de « thérapier », de vouloir guérir. Vous pouvez saisir comment cela se situe dans la même veine que celle que je viens de développer. Guérir suppose de savoir ce qu’est la santé mentale, mais ce que nous savons, c’est qu’elle n’existe pas.

Au-delà, Alexandre Stevens, que vous connaissez sans doute, qui a fondé le Courtil, a aussi ajouté ceci, c’est que dans nos institutions, on ne pratique pas de cure analytique et on n’interprète pas. Alors, ça c’est particulier. Pas de cure analytique au sens classique pour éviter que cette pratique en institution ne soit centrée sur les spécialistes qui recevraient les enfants dans leur cabinet et réduise le travail des dits « éducateurs » à une salle d’attente. Parce qu’en fait, c’est dans la salle d’attente que tout se passe, ou dans la cuisine, ou la salle de bain, n’importe où. Quand quelque chose surgit pour un enfant, une angoisse devant le trou de la baignoire par exemple, il y a urgence à répondre. On ne peut pas attendre le rendez-vous chez le « psy ». C’est donc dans la salle d’attente que l’acte du clinicien est attendu et pas dans le cabinet du spécialiste, ou pas seulement.

Le « on n’interprète pas » répond quant à lui à une nécessité clinique : c’est que dans la psychose, a fortiori dans l’autisme, il ne s’agit pas d’interpréter pour faire advenir un désir refoulé, car la spécificité de l’inconscient dans ce cas, c’est qu’il est « à ciel ouvert » ; il n’y a pas de désir caché dont il faudrait faire advenir la vérité, mais il y a une jouissance qui à tout moment envahit le corps de l’enfant et le déborde, et à laquelle il s’agit de mettre des bords.

Ce qui oriente

Alors, qu’est-ce qui oriente ? Il s’agit d’accompagner Lacan dans l’évolution de son enseignement pour pouvoir répondre à cette question. Ses premières élaborations mettent en avant le symbolique comme étant à l’avant plan. L’inconscient est structuré comme un langage et la vérité du désir s’attrape dans ses manifestations comme les rêves, les actes manqués ou les lapsus. Il a réinterprété l’Œdipe freudien avec la métaphore du Nom-du-Père. Le père est au centre du dispositif subjectif, il détermine la névrose comme la psychose. En ce qui concerne la psychose, la lecture des symptômes se fait à partir du concept de la forclusion du Nom-du-Père. Le Père comme agent de l’Œdipe et de la castration ne répond pas quand il est appelé à jouer sa fonction symbolique et dès lors le rapport à la réalité s’en trouve perturbé de façon profonde et irrémédiable. Mais force est de constater que la forclusion se présente elle-même comme un défaut, comme un déficit par rapport à ce que serait la norme de la névrose.

Cette conception va changer radicalement dans la dernière partie de l’enseignement de Lacan. Je le dis en bref, le langage n’a pas seulement des effets de symbolisation pour le sujet, mais il a aussi des effets de jouissance pour le parlêtre. L’inconscient n’est plus seulement situé comme le lieu d’une vérité sur le désir, mais aussi comme celui d’une volonté de jouissance. Cette jouissance est la reprise de ce que Freud a découvert à partir de l’au-delà du principe de plaisir, à savoir la pulsion de mort. Il y a quelque chose qui est propre à l’être humain, qui est donc lié au fait qu’il est un être de langage, qui va à l’encontre de son propre bien et qui touche son corps. Du coup, le symptôme prend une signification nouvelle : il n’est plus seulement ce qui dysfonctionne par rapport à une supposée norme, mais il devient ce qui du sujet répond à cette jouissance qui lui tombe dessus. Pour le dire en termes freudiens, le symptôme est ce qui permet de répondre à l’exigence pulsionnelle de façon détournée. Du coup, il n’y a pas de jouissance « normale », il n’y a de jouissance que symptomatique. Le symptôme n’est plus considéré comme un défaut qu’il faudrait supprimer, mais comme une invention, une solution du sujet pour traiter la jouissance. Et là, ce n’est plus le règne du père, qui d’ailleurs n’est plus très vaillant de nos jours, qui compte, mais plutôt la loi de l’invention singulière, du bricolage de chacun. Cela détermine une clinique au-delà du Père, au-delà de l’Œdipe.

A partir de là, je peux reprendre les différents points repris plus haut pour leur donner leur face positive.

Le savoir d’abord. Ce qui est essentiel, c’est que le savoir est situé non pas du côté de l’intervenant, mais du côté du sujet, localisé dans le symptôme. En définitive, la norme est celle du sujet, au cas par cas comme nous le disons, et le comportement est considéré comme une réponse symptomatique du sujet, c’est-à-dire comme un traitement de la jouissance qu’il ne s’agit pas d’interpréter mais de lire.

En fait, quand un enfant ou un adolescent arrive dans l’institution, notre position est assez naïve. Nous essayons de saisir quel est le réel auquel le sujet est confronté et comment il essaye d’y répondre avec son symptôme. C’est ça l’exercice de lecture du symptôme. Et pour pouvoir donner toute sa place à cette lecture, les réunions d’équipe sont très importantes, au moins aussi importantes que le travail sur le terrain. Ces réunions sont le lieu d’élaboration collective de la clinique en tant qu’au point de départ, nous ne savons pas, nous ne connaissons pas le sujet, le savoir est fondamentalement troué. Nous faisons des hypothèses sur quelle est la fonction d’un symptôme pour un sujet, nous interrogeons la doctrine analytique à partir de la pratique autant que la pratique est éclairée par la doctrine.

Evidemment, nous pouvons supposer que si un enfant a besoin d’une institution spécialisée, c’est que sa réponse symptomatique, avec ses effets de jouissance, n’est pas tellement conciliable avec le social, la famille ou l’école. Cela lui coûte cher, trop cher, cela le coupe du lien social en somme. Du coup, à partir de la lecture que nous faisons du symptôme, de ce à quoi il répond, nous ne cherchons pas à l’interpréter du côté du sens qu’il pourrait avoir ou à le faire disparaître, mais nous accompagnons le sujet dans la voie d’un possible réaménagement de son rapport à la jouissance pour qu’elle puisse devenir plus compatible avec le lien social. Il s’agit plus de border la jouissance, de la déplacer peut-être, que de la supprimer.

Pour en venir aux règles, eh bien il se fait qu’il peut y avoir des règles sur mesure, qu’il est tout à fait envisageable de dire à un enfant, un adolescent ou un jeune adulte : « Pour toi, seulement pour toi, ce sera comme ça. » Il y a néanmoins une règle fondamentale, qui n’est pas l’association libre, c’est l’interdit de la violence. C’est une règle éminente qui vaut pour tous, il n’y en a pas cent, de règles. C’est l’exception. Parfois, une mise à l’écart temporaire est décidée suite à un passage à l’acte, ou une mise en danger de l’autre comme de soi d’ailleurs. Cela m’a très fort frappé par exemple lorsque je travaillais dans un service qui impliquait de devoir traverser la rue pour conduire les enfants à l’école. Certains enfants se mettaient en danger, couraient sur la rue quand des voitures arrivaient. Il y en a un, je me souviens, qui se couchait sur la rue devant les voitures qui arrivaient. Il a été écarté plusieurs jours par le directeur et cela s’est arrêté. Je vais vous dire ce qui a été à mon avis opérant, ce n’est pas le renvoi par lui-même, mais c’est ceci : le directeur lui a dit que comme directeur, il ne lui était pas permis de laisser les enfants se mettre en danger. Il disait par là qu’il était lui-même, comme directeur, soumis à la loi et que ce n’était pas lui qui faisait la loi comme bon lui semblait, selon son caprice, qu’il y avait au-dessus de lui une instance à qui il devait lui-même rendre des comptes et qu’il ne pouvait absolument pas y déroger. Vous voyez, la Loi à laquelle nous sommes tous soumis, ce ne sont pas les règles que je décide de faire appliquer.

Il ne s’agit pas d’autre chose pour les intervenants sur le terrain. Si l’un d’entre eux est confronté par exemple à un passage à l’acte, il ne décide pas seul, en son nom, d’une réponse à donner, d’une sanction à prendre. Il n’incarne pas la loi. Plutôt, il se réfère par exemple à la réunion ou à un responsable en disant au jeune : « Ça vraiment, ça n’est pas possible, c’est trop grave, je suis tenu d’en parler à la réunion. » Ou « Je ne peux pas faire autrement que d’appeler le directeur… »

Le traitement des demandes, multiples et variées, toutes plus exigeantes et urgentes les unes que les autres suit le même chemin. Personne n’incarne à lui seul le pouvoir de dire oui ou non. La demande est renvoyée à une instance tierce (la réunion ou une autre instance symbolique) qui donnera une réponse calculée. En somme, l’intervenant peut se faire partenaire du sujet à la condition qu’il soit destitué, décomplété de façon permanente comme Autre du sujet qu’il pourrait incarner.

Cela a aussi des conséquences sur la façon de considérer et de manier le transfert. Lacan a défini à un moment de son enseignement le transfert à partir du sujet supposé savoir. Disons que le symptôme fait énigme pour le sujet et qu’il va éventuellement voir un analyste parce qu’il lui suppose un savoir par rapport à ce qu’il lui arrive. Eh bien, de loger le savoir du côté du sujet en institution – en fait, ce n’est pas propre à l’institution, mais bien plutôt à la psychose – cela retourne, inverse le transfert. Nous avons à apprendre du sujet comment il invente sa solution singulière. C’est lui qui est supposé savoir comment y faire avec la jouissance.

Le fait qu’il n’y ait pas de cure en institution est aussi articulé à cette conception du transfert. Parce qu’identifier d’un côté les éducateurs qui éduqueraient les enfants et de l’autre côté les psys qui accueilleraient la souffrance du sujet comporte le risque de focaliser les effets du transfert sur un seul lieu et ces effets de transfert dans la psychose prennent très vite un accent persécutif ou érotomane, ce qui peut très vite rendre le travail impossible. Au Courtil, à l’Antenne aussi d’ailleurs, il n’y a ni éducateurs, ni psychologues, ni psychanalystes, il y a des « inter-venants ». Alors, on dit « operatori » en italien je crois. L’intérêt du terme « inter-venants », c’est qu’il laisse entendre qu’il s’agit de « venir entre » le sujet et son Autre pour traiter les effets de jouissance. Alors, bien sûr, il y a des responsables et des directeurs, car il faut bien prendre des décisions, mais devant l’urgence à répondre à ce qui envahit un sujet, chacun est responsable, et là, il n’y a pas de spécialiste, il n’y a pas d’hiérarchie, il y a d’abord l’engagement de chaque intervenant.

Cela éclaire la question de la pratique à plusieurs, qui est une notion qui doit être bien connue en Italie, vu que c’est Antonio Di Ciaccia, fondateur de l’Antenne 110, qui l’a inventée. La pratique à plusieurs n’est pas une pratique collective, c’est une pratique où le savoir n’est pas incarné dans un seul, ni dans le collectif, qui est un autre nom de l’un seul, mais c’est une pratique où plusieurs est responsable de son acte, fût-il de se destituer ou de faire porter la barre sur soi-même en faisant référence à la Loi. Le transfert est ainsi possiblement pluralisé, et le choix est laissé au sujet de la, ou des personnes à qui il va s’adresser. Par ailleurs, cela répond à une nécessité très clinique, qui est celle dont je parlais tout à l’heure à propos de la salle d’attente. Ce qui tombe sur un sujet et le met en difficulté, la plupart du temps, ne peut pas attendre le rendez-vous fixé chez un psy pour être traité. Cela se passe au cours d’un repas ou de la toilette du soir, ou à n’importe quel moment : un regard qui persécute, un corps qui se défait, une angoisse qui envahit au moment du coucher… Chacun, qu’il soit psy ou pas, a à y répondre. Du coup, les diplômes des intervenants ne sont pas ce qui prévaut. Psychologues, éducateurs, enseignants, historiens, philosophes, orthophonistes, assistants sociaux, ouvrier parfois, chacun est engagé par la même responsabilité clinique.

En somme, on peut dire qu’il s’agit d’une pratique de la vie quotidienne plutôt qu’une pratique de l’entretien. Ce qui est en jeu, ce qui est visé peut-être, c’est un certain style de vie, c’est-à-dire un mode de jouissance qui soit compatible avec le lien social.

[1]             Intervento al Corso di Formazione “L’età del Loro. Autismo, psicosi, disagio e altri spettri nell’infanzia, nell’adolescenza e nella scuola” organizzato da Associazione Heta e Dora.news l’11 e 12 maggio 2019 ad Ancona

[2]                    Le lettere sono raccolte nel volume: “Lettere all’opinione illuminata”, a cura di Antonio Di Ciaccia, Astrolabio, Roma, 2002

[3]                    Istituto per bambini autistici e psicotici a Bruxelles di orientamento lacaniano fondato nel 1984 da Alexandre Stevens: www.courtil.be

[4]                    Istituto per bambini autistici e psicotici a Bruxelles di orientamento lacaniano fondato nel 1974 da Antonio Di Ciaccia: www.antenne110.be

[5]                    J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, vol I, p.171

[6]                    J.-A. Miller, Salute mentale e ordine pubblico, in Introduzione alla clinica lacaniana, Astrolabio, Roma 2012

[7]                    In francese la parola utilizzata è “inter-venants”

[8]                    Alias: inter venants: “venire tra”

[9]                    Con “Pratique à plusieurs” J-A Miller ha denominato la pratica inventata da Antonio Di Ciaccia nella sua istituzione Antenne 110 per il lavoro con i bambini autistici. L’espressione è stata adottata anche come titolo delle giornate del RI3 nel 1997 ed è attualmente utilizzata, in diverse declinazioni, in molte istituzioni anche italiane che fanno riferimento all’insegnamento di Lacan per la cura dei bambini autistici

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *