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Sabato Lacan – Lez. III – Seminario a cura di Adele Succetti presso Officina Coviello – Milano – 19 gennaio 2019

Il terzo capitolo di “Televisione”, intitolato “essere un santo” è molto più breve del capitolo precedente. È però un capitolo fondamentale in quanto Lacan ritorna, su richiesta di un Jacques-Alain Miller piuttosto polemico, sulla specificità del discorso psicoanalitico. “Gli psicologi, gli psicoterapeuti, gli psichiatri”, dice Miller, “si sciroppano, si sobbarcano tutta la miseria del mondo. E l’analista nel frattempo?” Cosa fa, cioè, lo psicoanalista, mentre gli altri psi, in modo spartano (“à la dure”) e terra terra si lasciano coinvolgere, si mischiano alla miseria del mondo?

Prima di affrontare la risposta di Lacan, è necessario spiegare brevemente cosa significhi per lui il termine “discorso”. Si tratta di un nuovo concetto, che Lacan elabora a partire dal Seminario XVI e soprattutto nel Seminario XVII, Il rovescio della psicoanalisi, e che serve a rappresentare il legame sociale, vale a dire il legame del soggetto con l’Altro, includendovi il simbolico e il godimento. Lacan lo rappresenta con una scrittura logica che parte dalla sua formula della catena significante S1 S2 in cui l’S1 sta ad indicare il significante-padrone, il significante che comanda, mentre l’S2 è l’insieme di tutti gli altri significanti organizzati in un sapere nel campo dell’Altro. L’ S1 può essere un significante qualunque – che ha effetti a livello inconscio – mentre l’S2 rappresenta tutti gli altri significanti che non sono S1, ma che costituiscono un sapere. A partire da questa formula iniziale Lacan logifica quattro tipi di discorso (più uno particolare, ovvero quello del capitalista) che possono rappresentare i vari tipi di legame sociale, ovvero di legame che il soggetto intrattiene con il suo Altro.

Oltre all’S1 e all’S2, c’è il soggetto diviso, indicato con S/, e il plus-godere, indicato con l’oggetto a minuscolo. Come indica in modo chiaro nello schema alla fine dello scritto “Radiofonia”, i posti sono quelli dell’agente (in alto a sinistra), dell’altro (in alto a destra, della verità (in basso a sinistra) e della produzione (in basso a destra).

Il primo discorso è il cosiddetto “discorso del padrone”, che corrisponde a un discorso in cui quello che comanda è un significante (l’S1). Il soggetto, in questo caso, si trova sotto la barra ed è rappresentato da un S barrato in quanto il soggetto (ipotetico) si colloca a livello della barra, è un posto vuoto. La formula del discorso del padrone produce, come suo resto, come perdita, l’oggetto a minuscolo, che rappresenta il godimento. Questo discorso, che è quello più comune, rappresenta l’effetto del significante, del linguaggio sull’essere parlante: il linguaggio, infatti, da un lato produce la divisione del soggetto, la sua alienazione e, dall’altro, produce sempre un resto di godimento. Da un lato produce un meno, di godimento, dall’altro un più, di godimento. Senza soffermarmi ulteriormente su questa elaborazione molto complessa, utilizzerò la definizione semplice che ne dà Lacan nel suo Seminario XVIII: “quando il significante padrone è in un certo posto (quello in alto a sinistra, il posto dell’agente), parlo del discorso del padrone. Quando un certo sapere lo occupa, parlo del discorso dell’Università. Quando il soggetto nella sua divisione, fondatrice dell’inconscio, vi è in posizione, parlo del discorso dell’isterica. Da ultimo, quando il più-di-godere lo occupa, parlo del discorso dell’analista” (J. Lacan, Le Séminaire, Livre XVIII, D’un discours qui ne serait pas du semblant, p. 25). Il discorso del capitalista, aggiunto in seguito, è molto particolare in quanto ha come prodotto un plus-godere e come verità un significante padrone; inoltre, in esso, a differenza di tutti gli altri discorsi, manca la freccia dell’impossibilità, manca cioè il limite, l’impossibile, in altri termini il buco.

Riprendiamo ora dalla risposta di Lacan in “Télévision”. In modo netto (“è certo”, dice) Lacan afferma che “sobbarcarsi la miseria (…) è entrare nel discorso che la condiziona, fosse anche a titolo di protesta” (p. 25). In questa frase Lacan abbozza la portata politica del lavoro di coloro che, nella società, accolgono il disagio psichico: essi entrano nel discorso che condiziona, che confeziona la miseria stessa, anche se lo fanno per protestare contro quello stesso discorso. La posizione di Lacan, come lui stesso dice, non è quella di “disapprovare la politica” (p. 25), perché, a suo avviso, nessuno è “escluso” da essa. Il fatto stesso che l’essere parlante sia in relazione con l’Altro, che si collochi dentro un discorso, fa sì che, di fatto, sia già di per sé nella politica. “L’inconscio è la politica”, aveva già detto Lacan in una lezione del suo Seminario inedito, La logica del fantasma, dell’anno 1966-67. L’inconscio è la politica significa anche, come spiega Miller, che l’inconscio è il discorso dell’Altro, che l’inconscio ha la stessa struttura del discorso del padrone – com’è indicato dallo schema posto a margine del testo.

D’altro canto, continua Lacan in “Télévision”, gli psico – che si adoperano a questo “coltinage”, a questo facchinaggio, a questo trasporto dei pesi della società, “non hanno da protestare, ma da collaborare. Che lo sappiano o no, è quello che essi fanno” (p. 25). Ciò significa che tutti fanno parte, tutti partecipano al discorso del padrone, anche quelli che protestano contro, perché la logica del significante comanda… sempre. Un esempio in questo senso, molto attuale, è la critica ecologista, che va benissimo, e che condivido, ma che, al contempo, ha prodotto qualcosa che non c’era prima, ovvero il commercio biologico, il capitalismo bio. La protesta, cioè, si è trasformata, è stata inglobata dal capitalismo stesso. Qui, comunque, Lacan sembra fare riferimento – perlomeno possiamo supporlo – alle varie esperienze di psichiatria e psicoterapia democratica degli inizi degli anni ‘70, forse anche di ispirazione basagliana, che credevano di poter cambiare la società cambiando le condizioni in cui vivevano e venivano curati i malati mentali… È stato un cambiamento fondamentale, necessario… ma, secondo Lacan, la posizione del discorso analitico è diversa.

La psicoanalisi, infatti, sin dalla sua origine, va in direzione opposta all’etica della civiltà, etica repressiva prima e oggi etica del consumo e del godimento. Ad ogni modo, Lacan si fa lui stesso l’obiezione che, molto probabilmente, gli veniva mossa da quegli ambienti: “troppo comoda questa idea di discorso, per ridurre il giudizio a quello che lo determina” (p. 25). Il problema, però, è che a questa critica non aggiungevano nient’altro; lo accusavano di “intellettualismo” (p. 26), il che, come dice Lacan, “non regge il confronto, se si tratta di sapere chi ha ragione” (p. 26). Si tratta di una questione politica di estrema importanza perché, aggiunge ancora Lacan, “lo regge ancor meno poiché a riportare/riferire quella miseria al discorso del capitalista, lo denuncio. Indico solo che non posso farlo seriamente perché a denunciarlo lo rinforzo – in quanto lo normo, cioè lo perfeziono” (p. 26).

Come ormai tutti sappiamo, criticare o denunciare una condizione – nello specifico il discorso del capitalista – non serve per modificarla o eliminarla; anzi, come si suol dire, “tutto va bene purché se ne parli!”. All’interno dell’insegnamento di Lacan, il fatto di aver elaborato, estratto la formula topologica-algebrica che raffigura il discorso del capitalista, e la miseria che essa produce, non fa altro che rinforzare quel discorso, che tutto consuma e usa a proprio vantaggio, anche il suo “perfezionamento” derivante dalla norma, cioè dalla regola estratta da Lacan. Da questa difficoltà – Lacan parla di un “vano tentativo” (p. 26) – dipende l’avvenire della psicoanalisi, ovvero come fare in modo che essa non si confonda con gli altri lavori psico, necessari e utili ma che, però, sono molto diversi, come ha indicato nel capitolo precedente, e che, inoltre, rafforzano il discorso del capitalista? Lo vedremo meglio nel seguito del capitolo.

Lacan “interpola” (p. 26), inserisce cioè una glossa, un’osservazione per spiegare meglio la specificità del discorso dell’analista. Anzitutto, Lacan non fonda il concetto di discorso a partire dall’ex-sistenza dell’inconscio, ma il contrario. Quello che orienta la sua ricerca, infatti, è l’inconscio, non la spiegazione del mondo o della società. Ed è dal suo lavoro sull’inconscio che Lacan giunge al concetto di discorso. Come dice Lacan, “È l’inconscio che io colloco/inquadro, in quanto esso ex-siste a un discorso” (p. 26), non a tutti i discorsi. Come spiega la nota a margine, l’inconscio, inteso però come inconscio freudiano, ex-siste solo al discorso analitico. Solo all’interno del discorso analitico, cioè, quello che ex- siste, vale a dire quello che si produce ex, fuori…. è l’inconscio freudiano nel senso dell’inconscio a cui la psicoanalisi si riferisce. In altri ambiti si possono verificare dei fenomeni inconsci, ma questi non hanno a che fare con l’inconscio freudiano, che lavora e cifra per un destinatario supposto in grado di decifrarlo.

“L’inconscio”, ribadisce Lacan, ex-siste al discorso analitico “tanto più che si attesta in chiaro”, si manifesta cioè chiaramente, “solo nel discorso dell’isterica” (p. 26), vale a dire laddove il soggetto diviso, bucato, è in posizione di agente. Il soggetto è diviso tra S1 (significante-padrone) e S2 (sapere), e, nel caso specifico del discorso isterico, quello che produce la divisione, è l’inconscio stesso… che si attesta a livello del corpo, che fa parlare il corpo. Nella situazione dell’analisi, inoltre, è proprio l’isterizzazione, nel senso dell’interrogazione, ciò che permette l’elaborazione. Altrove, dice ancora Lacan, dell’inconscio c’è solo “greffe” (p. 26), che in francese significa sia innesto o trapianto sia cancelleria di un tribunale. Cosa vuol dire qui il termine “greffe”? La risposta la troviamo nel Littré, il dizionario della lingua francese a cui faceva spesso riferimento Lacan. “Grefe” (che viene dal latino graphium) ci dice il Littré, “era un termine molto usato nella lingua antica e significava bulino, punteruolo. In seguito, il termine è stato utilizzato per indicare il luogo in cui si scrive, in cui si conserva quello che è scritto”. Potremmo dire che, mentre nel discorso dell’isterica l’inconscio si manifesta nel corpo, che diventa testimone di una verità inconscia, altrove si produce come scrittura che si deposita e che, come dice ancora Lacan, “per quanto possa sembrare sbalorditivo, persino nel discorso dell’analista in cui quello che ne fa è cultura” (p. 26). Nel lavoro dell’analisi, infatti, l’analizzante elabora, costruisce senso a partire dalle proprie formazioni dell’inconscio e, quindi, costruisce cultura perché la cultura è anche il deposito di senso, o meglio dei sensi, delle elaborazioni significanti, costruito nel corso dei secoli.

A parte il discorso dell’analista, da cui ex-siste l’inconscio freudiano, e a parte quello dell’isterica – di fatto la partner grazie a cui Freud ha inventato la psicoanalisi – come si legge a margine del testo “Télévision”, “prima” l’inconscio “si ascoltava come altra cosa” (p. 26). Prima dell’invenzione della psicoanalisi, cioè, l’inconscio si manifestava, ma lo si ascoltava… come altra cosa, restava a livello dell’alterità, di un qualcosa di estraneo che entrava nel mondo. È stato necessario “il discorso dell’analista”, cioè l’invenzione della psicoanalisi, perché l’inconscio fosse “stimato”, valutato “come sapere che non pensa, né calcola, né giudica, il che non gli impedisce di lavorare (nel sogno per esempio)” (p. 26). Questa definizione dell’inconscio riprende pari passo le parole presenti nel capitolo de “L’Interpretazione dei sogni” dedicato al lavoro onirico. Freud, infatti, afferma che l’inconscio: “Non pensa, non calcola, non giudica affatto, si limita a trasformare”. (S. Freud, “L’interpretazione dei sogni”, Opere, Vol. III, p. 463). La specificità dell’inconscio freudiano o dell’inconscio per la psicoanalisi è il fatto che l’inconscio sia un sapere, che Lacan rappresenta anche con la sigla S2, e un sapere che lavora, che trasforma, come una macchina, senza pensieri, giudizi o altro. Come sostiene Lacan “è il lavoratore ideale” (p. 26), quello, aggiunge, con un pizzico di ironia, “di cui Marx ha fatto il fiore, la parte migliore dell’economia capitalista nella speranza di vederlo prendere il testimone del padrone” (pp. 26-27).

L’inconscio della psicoanalisi, infatti, è un sapere (inconscio) che lavora – il lavoratore ideale, che non si ferma mai – ma, sorpresa dovuta al “fatto dell’inconscio” (p. 27) – senza padrone, come si vede dalla parte in basso del discorso dell’analista, S2//S1, dove a sinistra c’è la verità-sapere e a destra la produzione del significante-padrone o, meglio, dei diversi significanti-padroni che comandano l’esistenza di un soggetto. È importante notare che, al di là del passaggio da un discorso all’altro (dal discorso dell’isterica a quello dell’analista, ad esempio), Lacan sottolinea che l’inconscio si manifesta anche nelle “sorprese” (p. 27) che talvolta si producono nei discorsi stessi. Qui Lacan mostra l’elemento di novità proprio dell’inconscio: non solo sapere che lavora, ma anche tyché, sorpresa, manifestazione inaspettata dell’inciampo (cfr. Seminario XI). Se nei discorsi si possono produrre della sorprese, questo significa che la struttura del discorso è in primo luogo una struttura topologica, vale a dire una struttura non- tutta (la topologia, infatti, riguarda le proprietà geometriche delle figure che non dipendono dalla nozione di misura cfr. Treccani enciclopedia): essa include il buco da cui una sorpresa diventa possibile.

A questo punto Lacan risponde, finalmente, alla domanda che gli era stata posta da Miller riguardo alla specificità della psicoanalisi. “Il discorso che dico analitico”, dice Lacan, “è il legame sociale determinato dalla pratica di una analisi. Merita di essere portato all’altezza dei più fondamentali tra i legami che, per noi, restano in attività” (p. 27). Il discorso analitico, quindi, disegna la topologia di una pratica, quella dell’analisi, che determina un particolare legame sociale: due persone si trovano nella stessa stanza, una in sofferenza, elabora, associa e parla e l’altra, da una posizione che non è di soggetto ma bensì di sembiante d’oggetto, ascolta, legge il suo dire, taglia… e quindi permette la trasformazione/riduzione del godimento. Questo legame (e soprattutto questo lavoro, questo aiuto che va contro il non desiderio di sapere e di separarsi da quello che fa soffrire) è possibile solo perché esiste un soggetto supposto al sapere… vi è, cioè, una supposizione di sapere, che è la definizione lacaniana del transfert. Per questo motivo, il discorso analitico è uno dei legami più fondamentali, soprattutto oggi, epoca in cui il sapere è sempre più sul lato del soggetto (nel suo cellulare) e sempre meno nel campo dell’Altro. Supporre un sapere nell’Altro produce di per sé la divisione soggettiva, introduce cioè la perdita…. Condizione, questa, che il discorso capitalista nega, creando desideri necessari e tappando il buco con gli oggetti di consumo, in ogni modo.

A questo punto Miller, che lo pungola in continuazione, fa accenno ironicamente al “legame tra gli analisti”, da cui Lacan stesso era stato escluso… Lacan risponde che la “Società – detta internazionale” (p. 27), la Società analitica creata da Freud si era ridotta “ad essere famigliare” (p. 27). Dalla sua posizione – “di parte” (p. 27), Lacan, in modo ironico e piuttosto dissacrante, s’inventa un acronimo, che applica alle società di psicoanalisi e, in varie occasioni, anche alla Scuola da lui stesso fondata, ogni volta che si trasformava in qualcos’altro. L’acronimo che lui ha inventato è SAMCDA: società di mutuo soccorso contro il discorso analitico! Mi sembra una definizione molto chiara…. che avverte gli analisti del pericolo che corrono: da un lato una Scuola, un’associazione è necessaria per non delirare, per non credersi i detentori della verità, dall’altro si può sempre correre il rischio della SAMCDA. Gli analisti delle società di mutuo soccorso, come dice Lacan, “non vogliono quindi sapere nulla del discorso che li condiziona. Questo, però, non li esclude, tutt’altro, dato che funzionano come analisti, il che significa che ci sono persone che si analizzano con loro” (p.27).

Le SAMCDA, quindi, come tutte le istituzioni sono viste come dei gruppi i cui membri si sostengono fra loro, come spesso accade nei gruppi; in realtà si sostengono non tanto rispetto all’esterno ma, piuttosto, rispetto al discorso analitico che li condiziona e al posto di sembiante che in esso vi occupano, che lo vogliano o meno, che lo sappiano o meno. Al discorso analitico, infatti, gli analisti “adempiono” (p. 27), soddisfano, anche se misconoscono alcuni dei suoi effetti. Ad ogni modo, per fortuna, come dice Lacan, “nell’insieme la prudenza non manca loro e, anche se non è quella vera, può essere quella buona” (p. 28). Per fortuna, quindi, anche se non vogliono o non possono riconoscere gli effetti di quello che Lacan ha elaborato come discorso analitico, si attengono alla prudenza che è utile in ogni caso. Mentre la prudenza “vera” è avvertita della struttura del discorso che viene attivato nel momento in cui si accetta la domanda di un’analisi, la prudenza buona è la prudenza in quanto tale… che, nella situazione analitica, suggerisce Lacan, non fa mai male. Come indica, infatti, Lacan, “del resto, è per loro che ci sono dei rischi” (p. 28).

Nell’ultima parte del capitolo, Lacan parla dello psicoanalista e del santo. Anzitutto dice che l’analista “non lo si può inquadrare/collocare meglio, oggettivamente, se non con quello che, nel passato, si è chiamato: essere un santo” (p. 28). Cosa significa? Anzitutto che l’analogia tra lo psicoanalista e “l’essere un santo” – così come lo si concepiva nel passato – riguarda il suo modo di collocarsi nel discorso, il posto che egli occupa, ovvero il posto di oggetto, o meglio di sembiante di oggetto. Tale posizionamento, per così dire, riguarda l’essere (non l’avere) ma, a differenza dell’essere qualcuno, è l’essere in posizione di oggetto, come era proprio del santo. Secondo J.-A. Miller (suo corso del 1985-86), il santo anzitutto “è sede di passioni. É assediato dalle passioni che suscita e per le quali non c’è sollievo, conforto. Le passioni”, però, “per Lacan sono tutte relative al sapere”. Quindi un santo non è in una posizione facile. “Un santo”, continua Lacan, “durante la sua vita non impone il rispetto che, talvolta, un’aureola gli procura” (p. 28). Nonostante l’aureola (una sorta di soggetto supposto sapere), che talvolta gli procura un certo rispetto, in modo quasi automatico, egli non impone niente, soprattutto non il rispetto.

Come il cortigiano descritto da Baltasar Gracian – e tradotto in francese da Amelot de la Houssaye nel 1684 – nel suo Oracolo manuale e arte di prudenza (a cura di A. Gasparetti, Milano, TEA, 2002), il santo “nessuno lo nota (…) quando segue la via di non destare scalpore” (p. 28). Interessante questa affermazione da parte di un Lacan, che, di fatto, sta parlando in televisione! Forse la questione, ancora una volta, sta nella differenza tra l’essere il fallo – destando scalpore e producendo identificazione e amore – e l’essere/incarnare l’oggetto, che è ben diverso. Lacan in televisione, con le difficoltà e talvolta con le apparenti contraddizioni del suo discorso, si presenta come un oggetto, un oggetto indigeribile in un certo senso, che si può amare o odiare ma a cui è difficile identificarsi….

“Un santo, per farmi capire, non fa la carità. Piuttosto si mette a fare lo scarto: scarita” (p. 28). Anzitutto, “scarita” è un neologismo di Lacan che unisce carità e scarto. Fare la carità, seguendo questa logica, è una posizione di sufficienza e di superiorità: suppone di sapere cosa sia bene per l’altro, imponendogli il proprio, e glielo concede. Il santo-analista, invece, fa lo scarto, incarna l’oggetto a – oggetto scarto, oggetto causa – presta il suo corpo per questa incarnazione. “Questo per realizzare quello che la struttura (del discorso analitico) impone, ovvero permettere al soggetto, al soggetto dell’inconscio, di prenderlo per causa del suo desiderio” (p. 28). Solo se l’analista occupa quel posto, di fatto, permette l’apertura dell’inconscio e, dalla sua opacità corporea, oggettuale, permette che il desiderio del soggetto si metta in movimento, che elabori e produca formazioni…. “È dall’abiezione di questa causa”, aggiunge Lacan, “che il soggetto ha la possibilità di orientarsi almeno nella struttura” (p. 28) È necessario, cioè, questo punto di opacità – questo oggetto scartato, come indica il verbo latino abicere, gettar via – incarnato dall’analista, perché l’esperienza analitica possa aver luogo e, con essa, il fatto che l’analizzante possa cogliere, orientarsi, nella struttura ovvero nel suo essere, in relazione con il suo Altro. Interessante notare che Lacan pone come finalità non tanto un’identificazione, e neppure un cambiamento, ma bensì, per lo meno, la possibilità di orientarsi, ovvero di circoscrivere il proprio rapporto con il senso, il linguaggio e, dall’altro, con il proprio godimento.

Sul lato dell’analista, come indica però Lacan, “non è divertente” (p. 28) ma, suggerisce al pubblico televisivo, “coincide (ritaglia) con delle stranezze dei fatti di santi” (p. 28). Quello che ci sta dicendo Lacan ha a che vedere con la posizione dell’analista: è una posizione difficile, impossibile, diceva Freud. Come indica Lacan nel suo seminario inedito su Le savoir du psychanalyste, nella sua lezione del 1 giugno 1972, si tratta della posizione di sembiante di oggetto e, inoltre, del suo rapporto al sapere, che è difficile, in quanto l’analista non è nella posizione del padrone, rispetto alla verità, non difende cioè la via del senso, come abbiamo già visto, ma quella del segno, cioè del significante fuori senso. Nel capitolo di “Télévision” che stiamo leggendo, Lacan si attarda sulle caratteristiche del santo e sugli effetti che il fatto di occupare tale posizione produce. In primo luogo, “non è divertente” (p. 28) e, inoltre, rientra o assomiglia – visto da fuori – alle “stranezze dei fatti di santi” (p. 28). Quello che stupisce, in questa posizione, ha a che vedere con il godimento. Mentre sul lato dell’analizzante, si produce “effetto di godimento” (p. 28) in quanto godisenso (“il senso con il goduto” p. 28, racchiuso nell’S1), e quindi anche una trasformazione a quel livello, sul lato del santo: nisba! Come dice Lacan, “non c’è che il santo che resta a bocca asciutta” (p. 28) (rester sec in francese significa restare senza parole), “niente da fare per lui!” (p. 28). Questa è la cosa che stupisce di più… ma che è evidente per coloro che si avvicinano all’esperienza dell’analisi: “il santo è lo scarto del godimento” (p. 29). Il santo, cioè, è lo scarto, il rifiuto, quello che resta alla fine dell’operazione. Questo significa che l’analista, in quella posizione, oltre a non operare come soggetto non gode come oggetto. Non gode e basta! Talvolta, però, aggiunge Lacan, “ha un cambio, di cui non si accontenta, come tutti. Gode. Durante quel tempo non opera più” (p. 29). Quindi o c’è analista-sembiante d’oggetto, senza godimento, oppure c’è soggetto, padronanza e godimento. Non ci sono altre possibilità. Questo significa che c’è dell’analista solo nel discorso analitico, quando non c’è godimento sul suo lato. Nonostante gli interrogativi dei più furbi che si interrogano sui godimenti dell’analista, come aggiunge Lacan: “il santo non crede di avere dei meriti, il che non significa che non abbia una morale. L’unico guaio, per gli altri, è che non si vede dove questo lo conduca” (p. 29). L’etica della psicoanalisi, infatti, come abbiamo già visto, si oppone all’etica capitalistica del consumo e a quella del discorso del padrone, ovvero della padronanza, anche perché, da sempre, “sbattersene della giustizia distributiva, è spesso da qui che è partito” (p. 29). Spesso, cioè, chi è diventato analista è partito da un disinteresse per la giustizia distributiva, che ritiene che a tutti vada la 8

stessa cosa. La psicoanalisi, infatti, sceglie il particolare, non l’universale del per- tutti uguale; la sua etica è quella del non-tutto. Il capitolo termina con un’affermazione molto interessante ed evocativa: “Più ci sono santi, più si ride, è il mio principio, e perfino l’uscita dal discorso capitalista – il che non costituirà un progresso se è solo per alcuni” (p. 29). L’unica uscita possibile, per Lacan, è la via del non-tutto: non l’universale del tutti uguale, ma il legame sociale del riso (fuori senso) che unisce i diversi, riso che manifesta una forma alta di godimento nel legame. Interessante notare che, nel Seminario Da un Altro all’altro, nella lezione del 4 dicembre 1968, Lacan faceva osservare, a partire da alcune frasi di Marx sul capitalista che ride, il “rapporto innato, fondamentale del riso e dell’elisione” (cfr. p. 65), elisione-sottrazione che è proprio ciò che costituisce l’oggetto a minuscolo. Quindi si tratterebbe, per così dire, di chi ride …. ultimo.